traduzione di William Riker
Prologo
Io canto l'armi e l'uom che primo venne
dal mar di Creta, per voler dei Fati,
profugo alle Lavinie itale sponde;
molto ei soffrì tra i flutti, lungamente
inseguito dall'ira inestinguibile
di Giunone, e soffrì molto anche in guerra,
finché fondato egli ebbe una città
nelle terre degli abili Tirreni,
dagli déi prediletti, e i suoi Penati
portato v'ebbe; donde i padri Albani
e le mura invincibili di Roma.
Dimmi, Musa, perchè di Zeus la sposa
tanto perseguitò sì forte eroe,
a sì dure fatiche costringendolo:
son tanto duri i cuori dei Celesti?
Libro I
La Tempesta
Venìa sul mar d'Idomeneo la flotta,
esule dalla rocca di Minosse,
al suol gettata dai sovrani Argivi:
navigava il canal tra la Trinacria
e l'africana terra, né le navi
avean sentor di prossimo pericolo;
ma qui la vide la fiera Regina
degli dèi tutti, mentre, sopra un cocchio
trainato dalle sue giumente alate,
in Spagna andava per prendere parte
a una festa in suo onore. La divina
Era accendeva un odio tenacissimo
contro la stirpe di Minòs, da quando
Agénore, il nipote suo bellissimo,
il più bello tra tutti i figli d'uomini,
donato avea la mela d'oro a Venere,
non ad Athena, non a lei; così
verso Lipari deviò, e convinse
Eolo a scagliare i venti suoi inquieti
contro d'Idomenéo le curve navi:
"Io sette e sette bellissime ninfe
al mio seguito ho; la più avvenente,
la più giovane e allegra, Deiopéa,
io ti darò qual sposa, se tu affondi
la flotta del cretese mio nemico."
E così la tempesta investì in pieno
Idomenéo fuggiasco, il qual si vide
costretto ad invocare il dio del Sole,
bisnonno suo, l'altissimo Iperione,
Colui ch'è Posto al Sommo, chè 'l salvasse
da una sicura morte in mezzo ai flutti.
Elio avvisò il nipote Poseidone,
lo Scuotitore della Terra tutta,
il quale sgridò i venti, via scacciandoli;
subito il mar fu calmo, e le Oceanine
condussero le danneggiate navi
verso il porto fenicio di Cartagine.
Lì regnava Didon, che dal fratello
Pigmalïon scacciata fu da Tiro,
e che perse il marito suo Sicheo
per mano dei sicari del fratello;
per non perir anch'ella, fuggì via
e fondò di Cartagine la rocca,
dopo aver ottenuto la promessa
dal re numida, di cotanta terra
quanta cinger ne può di bue una pelle;
la ritagliò però in sottili strisce,
una corda ne fece, e fu con essa
che della sua città segnò il perimetro.
Vi giunse Idomeneo con la sua sposa,
Cassandra, figlia del potente Priamo,
il reggitor di Troia, cui Smintéo
concesso aveva il don di profetare,
ma non quello, ahimè, d'essere creduta,
perchè l'amor del Dio respinto avea.
Giunse così alla corte di Didone,
ma un nuovo inganno avea tramato l'algida
regina dei mortali e dei celesti:
"Se a Cartagine resta, Idomeneo
non avrà quel destin di gloria eccelsa
che gli assegnano i Fati, allor che Cesare,
da lui disceso, conquisterà il mondo,
i Galli, i Parti e gli Indi sconfiggendo."
Così il figlio divino d'Afrodite,
Eros cui tutti, umani e déi, s'inchinano,
allor che scaglia le sue frecce invitte,
e in schiavi suoi trasforma tutti i cuori,
convinse con blandizie a trapassare
l'anima di Didone con un dardo,
sì che d'Idomeneo, guerrier prestante,
perdutamente lei s'innamorò.
Afrodite, che proteggeva ognora
il cammin dei cretesi, fin da quando
Agenore donò la mela a lei,
troppo tardi s'accorse del misfatto
e il figlio suo rimproverò. Di Belo
la figlia ormai scordato avea Sicheo,
ed invitò alla mensa sua l'eroe,
di farlo suo bramando. La sua coppa
levando, la regina libò a lui
e poscia l'implorò: "Dicci, o straniero
che la stirpe del Sole illustri, quale
fu di Cnosso il destino, patria tua,
quale il valor del divo Deucalione,
tuo padre, e del cugino, il grande Agenore,
con quante truppe il Figlio dell'Aurora
venne dall'Etiopia in vostro aiuto,
quanti cavalli avea Diomede, e quanto
d'Ettore la scomparsa pianse Achille.
Anzi, ospite, comincia dal principio,
e dicci quale insidie i Danai tesero,
e le vostre sventure, e cosa infuse
nei cuori achei tant'odio contro Creta."
Libro II
Il Minotauro
Tacquero tutti, Idomeneo fissando
che dal suo scranno sommo prese a dire:
« Regina mia, tu vuoi ch'io rinnovelli
l'atroce duol che il cor mi schiaccia: come
la potenza di Creta fu distrutta
dai Greci, e la caduta della rocca
sacra ad Iperïon, ch'io stesso vidi,
nella notte peggior della mia vita:
ricordando tai cose, chi mai il pianto
tratterrebbe, seppur fosse Mirmidone
o Dòlope, o guerrier del tristo Ulisse?
Già declina la notte, e gli astri tutti
già ci invitano al sonno. Ma se vuoi
udir di Cnosso l'ultima rovina,
sebbene il cor si spezzi, inizierò.
Parecchie primavere fa, Minosse
su tutti i mar regnava incontrastato,
ed i navigli suoi giungean nei porti
del Ponto Eusino, della ricca Esperia,
della Sardegna, delle terre d'Africa,
dell'India e dell'Arabia, e la mia isola
si sarebbe difesa addirittura
contro il congiunto attacco di ogni gente,
se tutte contro noi si fosser mosse,
chè Poseidon le navi proteggeva
e guardava Anfitrite i nostri porti.
Volle un giorno però l'Enosigéo
saggiare di Minosse la pietà,
e dal mar gli mandò un toro bellissimo,
bianco come la neve, con le corna
di madreperla, e d'oro i quattro zoccoli,
pregandol di sacrificarlo a lui.
Visto però lo splendido animale,
per sé mio nonno invece lo trattenne,
sacrificando al dio del mare cento
e cento tori delle stalle sue.
Il dio dal crin ceruleo non gradì,
ed Eros inviò a sfrecciar la moglie,
Pasifae, figlia d'Elio e di Perseide,
sicché un'innaturale infatuazione
la prese per il toro di Posìdone;
più viver non potea, se non riuscia
a congiungersi carnalmente ad esso,
tanta era la passione nata in lei!
Se ci riuscì, fu grazie al divo Dedalo,
di tutti gli artigiani il più provetto,
il figlio di Mezione, il qual da Atene
era fuggito, avendo ucciso Talo,
nipote suo, chè della sua maestria
era geloso, e avea trovato asilo
alla corte di Cnosso. Ei preparò
una vacca di legno, grande e splendida,
dentro le cui latébre la regina
s'ascose, per unirsi al sacro toro.
Ed ella partorì un orrendo mostro,
il Minotauro, con taurina testa
e corpo d'uom, selvaggio ed affamato
di carne umana. Per troncar lo scandalo,
Minosse fece erigere da Dedalo
un palazzo con mille e mille stanze,
mille anditi e più di duemila scale,
il Labirinto, in cui vivea la bestia,
senza poter trovare via d'uscita,
tanto era complicato l'edificio;
e lo nutrìa con carne umana. Come?
Esigendo dalle città vassalle
giovani e giovanette, che condotti
erano a Cnosso, e dentro il Labirinto
fatti entrare; né più la via trovavano
per fuoriuscirne, pria che il Minotauro
li trovasse e sbranasse senza scampo.
Tiresia l'indovino venne a Creta
allora, e al re Minosse oracolò:
"Per questo tuo peccato, fine avrà
un giorno la potenza del tuo regno,
e per colpa sarà di un tuo nipote
che nascerà allorché tornerà Sirio
a levarsi dal mare insieme al sole."
Quel giorno infatti un bimbo nacque a Glauco,
suo figlio, ma Minosse il consegnò
a una guardia perchè lo sopprimesse.
Questa invece non ne ebbe cuore, e il bimbo
abbandonò sopra una cesta in mare.
Ma alcuni pescatori lo raccolsero,
lo allevarono, e a lui lo riportarono,
riconoscendol di stirpe regale
grazie alle fasce sue. Così mio nonno
si convinse a tenerlo presso sé,
senza saper che proprio così i Fati
realizzavan l'oracol di Tiresia.
Era colui Agenore, il più bello
tra tutti gli uomini, anche più di Paride,
figlio di Priamo, il reggitor di Troia,
che di giovin bellissimo avea fama.
Teseo uccide il Minotauro
Libro III
Il fallimento di Teseo
Intanto Egeo, il figlio di Pandione
che d'Atene era re, dovea pagare
come tutti i vassalli, il suo tributo
a Minosse mio nonno: egli Androgeo,
fratello di mio padre, aveva ucciso
chè avea trionfato in ogni disciplina
su suoi campioni alle Panatenaiche,
giochi in onor di Athena, e il re di Cnosso
l'avea sconfitto in guerra. Ma Medea,
divenuta sua moglie, dopo ch'egli
l'avea ospitata in fuga da Corinto,
convinse Egeo ad inviar a Creta
il figlio suo Teseo per sbarazzarsene,
così lasciando al proprio parto, Medo,
il tron di tutta l'Attica. Per mezzo
dell'aiuto d'Arianna, figlia anch'ella
del re di Cnosso, il principe ateniese
riuscì ad entrare dentro il Labirinto
con un filo di lana, che legato
allo stipite avea; trovato il mostro,
lo uccise, e quindi, riavvolgendo il filo,
riguadagnò l'uscita. A questo punto
tentò di assassinare il re Minosse,
sobillato da Arianna, ma mio padre
Deucalione scoprì la lor congiura,
il giovane Teseo in duello uccise
e scacciò Arianna, che si rifugiò
sull'isola di Nasso. Là, piangente,
la ritrovò Dioniso, il divino
figlio di Zeus e di Semele, uscito
dal ginocchio del padre degli déi,
signor delle vendemmie, che di lei
s'innamorò all'istante, la rapì,
immortale la rese e la sposò.
Vista la vela nera che tornava
ad Atene col corpo di Teseo,
segnal di lutto, Egeo si gettò in mare
che da lui prese nome, e gli successe
il figlio di Medea. Sconfitta, Atene
restò nostra vassalla, e più di prima
il regno di Minosse parea forte.
Se non che il re mio nonno punir volle
Dedalo, che ad Arianna suggerito
avea il trucco del filo, e lo rinchiuse
con Icaro suo figlio nelle oscure
viscere del complesso Labirinto,
ma riuscì egli ad evadere, incollandosi
ali di cera e penne sulle braccia,
e andò con lui suo figlio. Ma quest'ultimo,
preso da giovanile ardore, troppo
s'accostò al sole ardente, che la cera
sciolse, ed egli nel mar precipitò.
Dedalo giunse invece sulle coste
della Sicilia, trovando rifugio
presso Còcalo, re di quelle terre.
Ma Minosse non volle perdonargli
d'aver a Arianna retto il sacco, e quindi
cercò di rintracciarlo, promettendo
un ricchissimo premio a chi riuscito
fosse a fare passare un fil sottile
tra le valve di un'ostrica ancor viva:
era difatti certo che soltanto
Dedalo avea l'ingegno per riuscirci.
E ci riuscì, per conto di re Còcalo:
legò uno spago a una formica, e dentro
l'ostrica la introdusse, poi cosparse
di miele il bordo suo, sicché l'insetto
uscì dagli orifizi, per raggiungere
il miele, e così vinse la scommessa.
Certo che presso Còcalo vivesse
l'artigiano scaltrissimo, mio nonno
mosse con la sua flotta verso l'isola;
ma le figlie di Còcalo aiutarono
Dedalo ad adescarlo, e a assassinarlo.
Così morì il più saggio dei sovrani,
per colpa di quell'unica occasione
in cui la sua saggezza proverbiale
avea ceduto all'ira, e al desiderio
della vendetta. Zeus lo incaricò
di giudicar nell'Ade quale sorte
toccare deve all'ombre, i Campi Elisi
o il cupo Averno dove il duolo regna.
Deucalion gli successe in quel di Cnosso,
e la potenza ereditò del padre.
Libro IV
Il Giudizio di Agenore
Ma i Fati non s'ingannano, né mutano
parere quando il padre muore, e il figlio
a lui succede: su di noi incombeva
un oscuro destino. Zeus Olimpio
bramava infatti la nereide Teti,
ma un oracolo lo frenò, asserendo
che Teti avrebbe un giorno generato
un figlio assai più forte di suo padre.
Temendo che dal Tron del Cielo un giorno
suo figlio lo scalzasse, com'ei fatto
avea con Crono, diede allora in sposa
Teti all'eroe Peleo, figlio d'Eaco,
dei Mirmìdoni re. Mentre le nozze
erano celebrate con gran pompa,
Eris, della Discordia dea, furente
ché nessuno al banchetto la invitò,
gettò una mela d'oro sulla mensa
degli déi tutti, sovra cui leggeasi
"Per la più bella". Subito Afrodite,
Era ed Athena se la disputarono;
allor dei numi il padre sentenziò
che il più bello degli uomini deciso
avrebbe chi era tra le dee più bella.
Oh, se Paride e non il mio cugino
scelto avesse il Cronìde! Invece Agenore
comparire si vide Hermes davanti,
insieme alle tre dee, mentre sull'Ida
pascolava gli armenti pingui suoi.
"Dai a me quella mela, e tuo sarà
di Creta il regno, e non d'Idomeneo",
gli promise la Sposa dell'Egioco,
mentre Athena promise: "Tu sarai
degli uomini il più saggio e il più sapiente,
se mi preferirai all'altre dee."
Ed infine Afrodite: "La potenza
o la saggezza io non t'offro, Agenore,
bensì l'amor della più bella donna
che ci sia sulla terra dei mortali."
Il bellissimo Agenore, annoiato
della vita di corte, non stimava
il regno punto, e troppo faticoso
riteneva l'imper del mondo reggere;
nè la sapienza potea interessargli,
perchè chi è bello e giovane assai spesso
è pure fatuo, e non sa cosa farsene
di quali sian le vie che gli astri seguono,
quali le proprietà dell'erbe, e quali
i rimedi ai malanni che ci assedian.
Ma l'amor, questo sì lo stuzzicava,
così la mela diede ad Afrodite,
colei che dalla spuma del mar nacque.
Da allor Athena ed Era in odio presero
tutti i cretesi, né modo ci fu
per cangiare il lor cuore: sacrifici
ed ecatombi, tutto noi provammo,
ma irremovibili esse furon, mentre
la dea che a Cipro nacque ci protesse
e mantenne il suo voto; sì facendo
tuttavia accelerò il voler dei Fati,
chè quando mio cugino fu inviato
dal re mio padre a Sparta, per trattare
un'alleanza contro Troia, l'urbe
che più con noi rivaleggiava, in quanto
controllava il passaggio degli stretti
dei Dardanelli, verso il Ponto Eusino,
secondo la promessa della dea,
Elena la bellissima, la sposa
di Menelao l'atride, che da un uovo
coi Dioscuri uscì, poi che con Leda
Zeus in forma di cigno si fu unito,
travolta fu da una passione insana
verso il cugino mio, e fuggì con lui,
seguendolo allorché ritornò a Cnosso.
Come una figlia Deucalion l'accolse,
e Agenore sposò, con grandi feste,
ma Menelao di Sparta tanta offesa
non poté sopportar, che già una volta
Ercole avea rapito la sua sposa
quando ancora era bimba. Suo fratello
Agaménnone di Micene, poi,
cogliere volle l'occasione ghiotta
per muover guerra a noi, che di Micene
eravamo rivali in terra e in mare;
e una gran flotta egli allestì, riunendo
tutti i sovran di Grecia e d'Asia uniti.
Libro V
La Guerra di Cnosso
Venne Achille da Ftia, figlio di Teti,
eroe divino in tutto invulnerabile
fuori che nel tallon, che tra una vita
lunga ma grigia, ed una molto breve
ma di gloria assai ricca, questa scelse.
Venne da Pilo Nestore, il più saggio
dei greci tutti, e il figlio di Medea
dalla rocca d'Atene; venne Ulisse
ricco d'astuzie, dall'isola d'Itaca,
da Salamina Aiace, e Dïomede
dall'arce d'Argo, ricca di cavalli.
E giunse anche da Troia l'uom più forte
dopo Achille, che visse sulla terra,
Ettore dico, il figlio primogenito
del re Priamo, che ai Greci volle unirsi
per combatter con noi, che coi troiani
rivaleggiam da sempre sopra i mari;
non venne invece Paride, da sempre
amico dei cretesi, apertamente
disapprovando d'Ettore la scelta.
Venne dunque una flotta sterminata
di mille e mille navi contro Cnosso,
ma nelle immense mura ci chiudemmo
tutti noi, che costrusse Poseidone,
e niun potea espugnare tra i mortali.
Memnone con gli Etiopi e Sarpedonte
con i suoi Lici vennero al contrario
solerti in nostro aiuto, e se le Amazzoni
non giunsero, fu sol perchè le donne
guerriere il mare temono, e non nàvigan.
Dieci anni durò l'assedio, dieci
anni di guerre, scontri, stragi inutili
da una parte e dall'altra. Io combattei
i prodi Danai con tutte le forze,
e cader vidi sotto la mia spada
fiore d'eroi, sì come morir vidi
tanti amici e fratelli: di Tiresia
si compiva così la profezia
che condannava Creta a scomparire,
per lasciar posto ai Greci, come crolla
l'albero antico in mezzo alla foresta,
se la tempesta infuria, e al posto suo
spuntano nuove fronde, che conquistano
del sol la luce, e svettan verso il cielo.
Non ti so dir, regina, quanti atti
di valore vid'io compiuti, sotto
le sacre torri della mia città,
e a quanti presi parte. Il forte Achille
un giorno io affrontai, e certamente
ucciso egli m'avrebbe, se Iperione
non m'avesse celato del Pelide
agli occhi, via portandomi, chè i Fati
a me legavan la sopravvivenza
della stirpe che a Zeus Europa diede.
Vidi l'ira d'Achille, che l'Atride
punir volle, poi che la schiava sua
Briseide per sé prese; Ettore allora,
il qual fraterno amico del Pelide
divenuto era nel frattempo, prese
l'armi sue, ed affrontò Glauco in battaglia,
il qual l'uccise grazie a Poseidone
e l'armi gli rapì. Quando lo seppe
il piè veloce Achille si stracciò
le vesti, e il crin di cenere si asperse;
poi si fece forgiare armi novelle
da Efesto, il dio che sotto l'Etna forgia
i fulmini di Zeus, grazie all'aiuto
di Sterope, Arge e Bronte, i tre Ciclopi;
e con esse affrontò Glauco, uccidendolo,
e orrendo strazio del suo corpo fece.
Ma poi Zeus lo convinse a non lasciare
in pasto a cani e uccelli il corpo suo,
a suo fratello Deucalion rendendolo.
Agenor vendicare volle il padre
e, dopo aver scoperto che il Pelide
non era invulnerabil nel tallone,
grazie a Calcante, l'indovino greco
catturato da lui, ordì un inganno:
offerse al grande Achille in sposa Fedra,
la più giovane delle sue sorelle,
la più bella, di tutte la più dolce.
Il Pelide accettò, ma mentre già
si imbandiva il banchetto, gli scagliò
Agenore una freccia avvelenata
dentro il tallone; e fu così che Achille
scese di Dite agli antri. L'armi sue
furono disputate tra gli Achei
da Ulisse scaltro e Aiace Telamonio,
ma vinse il primo, e il re di Salamina
impazzì e si gettò sulla sua spada.
Ed allora Odisseo, da mendicante
travestito, nell'urbe si introdusse
di Cnosso con Diomede, e ce la fece
a rubare dal tempio sull'acropoli
la statua d'Iperione, che da sempre
ci proteggeva. Eppur, neanche così
riuscirô i Danai a piegar di Creta
l'invitta resistenza. Da dieci anni
durava ormai l'assedio, e tutti esausti
eravamo, aggrediti ed aggressori.
Idomeneo vede le navi achee avvicinarsi a Creta
Libro VI
L'inganno del Toro
Fu allor che il tristo Ulisse concepì
l'inganno suo di certo più famoso:
ei fece costruir un toro immenso,
tutto di legno, con la pancia cava,
in cui s'ascose lui con altri eroi:
Menelao re di Sparta, Aiace Oileo,
Neottòlemo, il figliuolo del Pelìde,
Epeo, che costruito aveva il Toro,
ed altri valorosi. Una mattina
così scoprimmo con sorpresa enorme
ch'eran partiti i Greci, più nessuno
di lor restava, e il toro gigantesco
presso le porte nostre in piè s'ergea.
Credemmo tutti ch'erano partiti
con il favor del vento per Micene,
e Cnosso uscì dal lungo lutto: tutte
le porte spalancammo, e fuor corremmo,
liberi a visitar gli accampamenti
dove i Danai sostavan: qui piantaron
i Dòlopi le tende, e qui Agaménnone,
Achille si accampava proprio lì,
lì tiravano in secco le lor navi
e qui ingaggiavan contro noi battaglia!
Ammiravamo intanto l'ampia mole
del toro ingannatore, e fu Timéte
che per primo propose di portarlo
dentro le mura. I nostri anziani invece
chiesero di bruciarlo, e di squarciare
i fianchi suoi per controllar se il ventre
celava qualche insidia. Deucalione
era diviso tra questi propositi.
Quand'ecco, un greco vien portato innanzi
al nostro re, che alcuni contadini
avevan catturato tra i cespugli.
"Il mio nome è Sinone", iniziò quegli,
"e, siccome m'inimicai Ulisse,
questi convinse i Greci ch'io dovea
esser sacrificato a Poseidone,
per alle loro navi assicurare
un tranquillo rientro nei loro porti.
Ma io riuscii a fuggire, e mi nascosi
tra le fronde, finché tutte le navi
non vidi uscir di Cnosso dalla cala."
"Ma il grande Toro?" Deucalion gli chiese,
e lui: "Quella è un'offerta a Poseidone
l'Enosigéo, per espiar la colpa
d'aver i suoi protetti minacciato,
in cambio della vita mia; distruggerlo
un sacrilegio orribile sarebbe!
Portatelo piuttosto entro le mura,
o cretesi, e di certo inespugnabile
diventerà la vostra alta cittade."
In quel momento venne il sacerdote
Catreo, che di Minosse e di Pasifae
era figliuol, e da lungi gridò:
"O miseri cretesi, qual follia
è questa vostra? Voi forse credete
che davvero i nemici sian partiti?
Fra voi è tanto poco noto Ulisse?
O è pien d'Argivi, o è fatto per spiarci;
diffidate, o cretesi, del gran Toro:
io temo i Danai pur se portan doni."
Ciò detto, scagliò un'asta contro il ventre
ricurvo di quel Toro, e vi s'infisse
oscillando: un rimbombo cavo diedero
le viscere sue vuote. Ahimè, se i Fati
non fosser stati avversi a noi, e i senni
nostri accecati: ci avrebbe convinto
Catreo a spezzare i greci nascondigli:
adesso, Cnosso, ancor saresti in piedi!
Ma, proprio mentre Deucalion pensava
se ascoltar del fratello suo i consigli,
dal mare venner due serpenti orribili,
e di Catreo sui figli si gettarono;
il sacerdote corse ad aiutarli,
ma lui pur fu dai mostri stritolato.
"È un chiaro segno degli déi", gridarono
tutti i cretesi: "dal ceruleo dio
fu punito perchè volea distruggere
la sacra effige che ci dee proteggere!"
Abbattemmo così le porte altissime
di Cnosso, e il ligneo toro trasportammo
nella gran piazza. Infin ci abbandonammo
ad ogni sorta di festeggiamento:
troppa era l'euforia, dopo tanti anni
di guerra e lutti amari! Io pur mi unii
alle danze gioiose. Stanchi e brilli
ci addormentammo, e ovunque fu il silenzio.
Sinone allor, che d'Odisseo crudele
era in realtà cugino, e s'era apposta
fatto da noi arrestar, per impedire
che il Toro distruggessimo, uscir fece
i Greci dal suo ventre. Ucciser essi
le sentinelle, e aprirono le porte
agli Achei tutti, i quali avevan finto
sol di partire, e col favor del buio
tornavan tutti ad occupare Cnosso.
Libro VII
Cnosso è presa
Ecco, era l'ora che gli uomini affranti
conoscono il riposo, e grazie ai numi
esso scorre dolcissimo; ed anch'io
nel mio placido letto riposavo,
quando Glauco mio zio mi apparve in sogno:
oh quant'era cambiato, da quel dì
in cui noi lo vedemmo ritornare
dal campo di battaglia, rivestito
dall'armi del Pelìde, come un dio!
Irta la barba, e dell'amaro sangue
i capelli grommati, le ferite
mostrava che subì intorno alle mura,
quando di lui Achille fece scempio!
Ed ecco, il pianto in sogno non trattenni
e a lui parole alate io rivolsi:
"O luce dei cretesi, tu, speranza
certa di Cnosso, da che lidi torni?
E perchè si disfatto ti rivedo?"
Nulla rispose a ciò l'ombra infelice,
ma mi gridò: "Deh, fuggi, figlio mio,
alle fiamme sottraiti: già il nemico
è sulle mura, e butta giù le torri!
Se ancora vivo fossi, io correrei
con il mio braccio, a difendere l'urbe!
Ma tu i Penati prendi, e scappa via
dalla rovina estrema: più alte mura
per lor costruirai, fra nuove genti,
dopo aver corso l'infecondo mare."
Io così mi destai, udii il frastuono,
le grida, il gran cozzar fra lor dell'armi,
e sul tetto salii: le fiamme altissime
dall'acropoli, ahi lasso, si levavano,
come allorquando cade una scintilla
sulle messi mature, o impetuoso
torrente invade i campi, distruggendo
la fatica dei buoi, e le selve svelle,
e il pastore stupisce a ciò assistendo.
Subito mi fu chiaro degli Argivi
l'inganno, e mi decisi a intervenire
per difender la rocca di Minosse:
una sola speranza resta ai vinti,
in alcuna salvezza non sperare!
Presi l'armi di bronzo, ed all'acropoli
corsi, uccidendo molti Greci incauti
che davanti alla spada mi venìano.
Nella confusïon della battaglia
incontrai Panto, che del figlio illustre
di Latona era sacerdote, e insieme
a lui degli uomin radunai. Con essi
affrontammo i soldati di Androgeo,
e tutti li uccidemmo. L'armi loro
proposi di indossare, per confonderci
coi Greci, e fu con questo stratagemma
che sterminammo un numero incredibile
di assalitori dànai, penetrando
infine nella reggia; infatti solo
al padre mio pensavo, e di soccorrerlo
bramavo nel periglio. Ma purtroppo,
in uno scontro con le soverchianti
truppe di Dïomede, tutti uccisi
vennero i miei compagni, ed io soltanto
con un vecchio scampai all'atra morte.
Solo, nulla potei per Deucalione,
il padre mio, ch'io vidi trapassato
dalla lancia del figlio del Pelìde,
Neottòlemo, ubriaco d'ira folle.
Contro lui io scagliarmi avrei voluto
e vendicare il padre, o perlomeno
cercar morte gloriosa insieme a Cnosso,
ma l'avo Iperïon m'apparve innanzi,
benché non fosse giorno, e m'ammonì:
"Nulla puoi fare più, o Idomeneo:
non i mortali, ma gli déi decretano
la fin della cittade: credi a Glauco
e fuggi via in esilio, in quanto spetta
a te di proseguire di Minosse
la gloria là ove il Fato ti richiama!"
Ciò detto, per un attimo squarciò
la nebbia ch'impedisce a noi mortali
di veder gli immortali: e ecco Giunone,
Athena ed Ares che con inaudita
forza le mura distruggean di Cnosso.
Allor capii: nessuno può combattere
contro i Numi, sperando di spuntarla.
Un passaggio segreto noto a pochi
allor percorsi, uscii dal gran palazzo
di Minosse, ormai preda delle fiamme
che fino al ciel giungeano, alla mia casa
ritornai con il cuore in gola, tosto
presi con me il figliuolo mio Idamante
ed Ilia la mia sposa, che di Priamo
e d'Ecuba era figlia, e con lor corsi
verso le porte che guardavan l'Ida,
sacro monte di Creta, sopra cui
venne Zeus allattato da Amaltea.
Ma sentivo il nemico avvicinarsi,
così Idamante presi sulle spalle
e mi inoltrai correndo per viottoli
sconosciuti e intricati poco meno
del Labirinto; quando giunsi alfine
all'alta porta, mi voltai e vidi
che più con noi non era la mia sposa.
Il mio figliuol lasciai colà nascosto
ed indietro tornai per rintracciarla.
Ma avevo fatto solo poca strada
che una figura diafana mi vidi
venire incontro, che avanzava senza
sfiorar l'acciottolato con i piedi.
Era uno spettro! Tosto s'arricciaron
tutti i peli sul corpo a me, vedendo
che quel fantasma d'Ilia avea sembianza!
"Dove corri, o infelice?" la mia donna
mi disse con la voce di chi piange.
"Rimasi indietro, i Danai m'hanno presa
e subito passata a fil di spada.
Ma fuggi, tu che puoi, o Idomeneo:
i Fati di daranno un'altra sposa
di là dal mare, ed una discendenza
ch'eterna gloria ti assicurerà,
e questo scempio vendicherà un giorno."
Ciò detto, si dissolse, come fa
un sogno quando sorge l'alba, e il gallo
distrugge col suo canto tutti gli incubi
che dall'Ade sul mondo si riversan.
Non impazzii soltanto perchè il Fato
non lo permise, ma parevo un folle
mentre correvo per tornar dal figlio,
temendo che mi fosse pur lui tolto.
Quando il raggiunsi, v'erano con lui
molti cretesi, come me scampati
ad una morte orrenda in quella notte,
tutti pronti a seguirmi: perchè, adesso
che Deucalion non era più, io solo
restavo in vita del minoico sangue.
Con lor fuggii sulle montagne, lungi
dalla strage compiuta dagli Achei:
seppi più tardi che, quando il momento
venne per loro di spartir le donne
di Cnosso tra di loro come schiave,
Achille apparve in sogno a lor, e Fedra
pretese pure lui come sua parte.
Neottòlemo così la prese, e subito
sulla tomba d'Achille la sgozzò.
Libro VIII
L'odissea di Idomeneo
Attraversata l'isola, giungemmo
sulla sua costa volta a mezzogiorno,
e lì una flotta fabbricammo. Appena
giunse la primavera, il mar prendemmo,
e navigammo verso il fiume Egitto.
Quivi giunto, sull'isola di Faro
sbarcai, pensando di chieder aiuto
al re di quel paese, che alleato
un dì era stato di Minosse, quando
Creta il pélago tutto dominava.
Mi misi a fare legna ma, strappate
le fronde a un mirto, con sommo terrore
vidi che sanguinava! Fuor dal tronco
uscì allora una voce, che parea
venir dall'oltretomba: Polidoro,
figlio di Priamo e mio cognato, là
era sepolto, poi che il Faraone
l'aveva fatto uccidere. Mandato
l'aveva il padre in quel d'Egitto, in cerca
d'alleati per Troia, con tesori
d'oro e d'argento, e per impossessarsene
l'avean gli egizi ucciso, e sul quel lido
l'avean lasciato senza sepoltura.
Invaso dall'orror fuggii, ma presto
in me stesso rientrai, tornai sul posto
coi figli e coi compagni, e là innalzai
un monumento funebre al più giovane
tra i figliuoli di Priamo, che un'acerba
morte trovato avea lontan da casa.
Ma rimaner non volli tra le genti
d'Egitto, ch'eran state tanto empie
verso gli ospiti loro: il mar ripresi
con le dodici navi, e giunsi a Delo,
intenzionato a interrogar l'oracolo
d'Apollo, onde sapere dove mai
la mia nuova città dovea fondare.
"Cerca il parente tuo che t'è più prossimo",
fu la risposta di Timbreo. Ma quale
parente il dio intendeva, s'era morto,
a parte me, d'Europa tutto il sangue?
A quel punto io d'Ilia mi sovvenni,
ch'era figlia di Priamo. Certamente
il vecchio re di Troia ci era avverso,
poiché approvato avea la spedizione
d'Ettore contro Cnosso, ma era morto
il marito d'Andromaca, e l'erede
ora era diventato suo fratello,
Paride, il quale amico ci fu sempre:
così, di alcuni vinte le obiezioni,
puntai con decisione verso Troia.
Ma quale delusione mi aspettava!
Quando sbarcammo a Ténedo, fu chiaro
che la ventosa Troia era distrutta,
né più e né men di Cnosso! Tra i palazzi
gittati al suol, vedemmo solo donne,
vecchie, bimbe, giumente, vacche, cagne:
ogni maschio animale o umano ucciso
era stato, e giacea sotto la polve.
Raggiunsi ciò che infranto rimanea
del Palladio di Troia, ed una sola
sacerdotessa vidi a me venire,
con gli abiti strappati e il volto sfatto.
Era Cassandra, profetessa e figlia
del grande Priamo, che mi apostrofò:
"Fuggi, o figlio di Creta, la rovina
che si abbatté sui Teucri: nessun maschio
le Amazzoni lasciarô in vita, quando
demoliron le nostre sacre torri."
Io però non fuggii, e volli piuttosto
ch'ella narrasse quale immane forza
gettato avesse al suol l'urbe di Dàrdano.
Seppi così che Paride, il bellissimo
figliuol di Priamo, inviato venne
dal padre suo in mission presso le Amazzoni,
le vergini guerriere che una poppa
s'amputan per poter tendere l'arco,
e tengon schiavi i maschi loro, come
i fuchi schiavi son nell'alveare;
ed inviato fu per quel motivo
medesimo che lungo il sacro Nilo
vide mandato Polidoro il misero:
temeva Priamo che, ridotta a nulla
la potenza di Creta, i duci Argivi
volesser pure l'arce sua attaccare,
e nessun alleato più potente
potea trovar delle guerriere vergini.
Purtroppo il Fato avverso avea voluto
che la regina lor, Pentesilea,
s'innamorasse del leggiadro Paride,
ricambiata da lui, e con lui fuggisse
tra le mura di Troia. Ma le Amazzoni
avevano creduto invece ch'ella
fosse stata rapita, ed inseguirono
fino alle Porte Scee gli amanti, forte
gridando di restituire loro
la loro reggitrice. Inutilmente
Pentesilea spiegò che avea seguito
di sua volontà Paride: tre mesi
le Amazzoni assediaron la città
ed infine la presero, perché
Ettore le mancava per difenderla,
Ettore morto a Cnosso. Pur la prode
Pentesilea morì, in combattimento
contro le sue compagne; alcuni pensano
che volontariamente abbia cercato
la fine, quando le fu chiaro come
mai le guerriere avrebber rinunciato
a lei, e mai potrebbe avuto vivere
lei stessa senza Paride, lontano
dalla città di Troia. Le guerriere
intrepide le donne risparmiarono,
ma, furenti perchè Pentesilea
avevan perso, un'ecatombe orrenda
fecer dei maschi tutti: Priamo, Paride,
Laocoonte, Deifobo, Rifeo
e tutti gli altri valorosi giacquero
tra le rovine d'Ilïon superbo.
Solo Enea si salvò col figlio Ascanio:
Afrodite sua madre diede loro
l'aspetto di una vecchia e di una bimba,
sì da ingannar le Amazzoni guerriere,
ed or Enea su un popolo di donne
regnava, nuovo sire della rocca;
mentre Antenore aveva preso il mare
pria dell'arrivo delle assalitrici,
forse avvisato da un benigno Nume,
per cercar oltremare nuova patria.
"Tu pur fuggi di qui, o Idomeneo",
mi ripeté la profetessa: "lungi
da qui è il destino tuo, ed erroneamente
l'oracolo d'Apollo interpretasti."
Ma io non le credetti: mi sembrava
Troia il posto più giusto per tentare
di cominciar da capo. Una cittade
distrutta sol attende qualcheduno
che la ricostruisca e la ripopoli,
e dopotutto un pezzo di me pure
era troiano, avendo avuto un figlio
dalla figlia di Priamo. Il pio Enea
d'accordo si mostrò. Così io in moglie
presi Cassandra, e con gli uomini miei
pensai di popolar di nuovo l'urbe.
Mi ripetea Cassandra che non era
quella la meta dell'errare mio,
ma non le davo retta: i miei compagni
già prendevan in spose le troiane,
e pareva davver che un popol solo
da Cretesi e da Teucri dovea nascere.
Ecco, però, improvvisamente esplose
una tremenda pestilenza in Troia,
mai vista pria d'allor: tutti i superstiti
cominciarô a morir, e ambe le stirpi
parvero all'estinzione oramai prossime!
L'oracolo d'Apollo, consultato
dal mio indovino, confermò alla fine
quanto la sposa mia da molte lune
andava ormai gridando: non a Troia
io dovevo fermarmi, e in altra plaga
volevano gli déi ricostruire
la grandezza del regno di Minosse.
A Cassandra credetti allor, e il mare
ripresi con i fidi miei cretesi;
molte donne troiane che sposate
avevan essi, vennero con noi,
mentre alcuni rimaser nella Troade
sotto il regno d'Enea. La sposa mia,
che, come vedi, sempre mi accompagna,
mi seguì sulla strada dell'esilio:
fu lei a suggerirmi che l'oracolo
di Smintèo mi voleva indirizzare
forse vero l'Esperia, l'ubertosa
terra dell'occidente, dove scorrono
il vino, il latte e il miele, e dove Crono
regnò dopo aver perso il Tron del Cielo:
infatti Argiope, la madre d'Europa
e nonna di Minosse, mia antenata,
era nata tra i boschi d'una terra
chiamata Lazio, ché assai larga e aperta;
là dunque convenìa volger la prora.
Così la Grecia circumnavigammo
e giungemmo alle Strofadi, isolette
pietrose ad ovest del Peloponneso;
Cassandra sconsigliò la sosta, eppure
nemmeno quella volta diedi retta
alla proposta sua: così dovemmo
fuggir di corsa, ché fummo attaccati
dalle Arpie mostruose, ch'hanno corpo
di rapace, e di vecchia hanno la testa,
nomate Aèllo, Ocìpete e Celeno.
Era le aveva aizzate, e delle tre
l'ultima una maledizion paurosa
ci scagliò sulle teste: "Tanta fame
avrete, da mangiar pure le mense!"
Fuggimmo via, per soffermarci poi
presso Butròto, un'urbe dell'Epiro,
dove incontrai altri esuli di Creta,
il cui indovino mi profetizzò
che il mio vagare avrebbe avuto fine
quando, giunto alla foce d'un gran fiume
d'Italia, avessi visto una gran scrofa
con trenta porcellini appena nati.
Tosto varcammo l'Ionio, e dell'Ausonia
ci apparvero le coste. Tutte quante
le circumnavigammo, ma evitammo
la stretta bocca dove Scilla attende
i marinai per farli propria preda,
e Cariddi tre volte ogni dì ingoia
l'acque per mar, e tre le espelle fuori.
Tutt'attorno alle coste di Trinacria
viaggiammo, e su una rupe avemmo modo
di scorgere il ciclope Polifemo,
che Ulisse avea accecato; proprio lì
prendemmo a bordo alcuni dei suoi uomini
rimasti a terra, i quali a noi si unirono.
Giungemmo infine a Drépano, dove altri
esuli del mio popolo fondato
avean una città. Per breve tempo
presso loro rimasi, poi le vele
spiegai al vento. Ma di Zeus la sposa
là mi sorprese e, memore dell'odio
nutrito verso Agénore, di nuovo
tornò a perseguitarmi. Grazie ai numi
del mar potei però prendere terra
nel regno tuo, o Didone, dove accolto
m'hai con onore, e qui il racconto ha fine. »
Peter Paul Rubens, La morte di Didone (1630). Louvre (particolare)
Libro IX
La morte di Didone
Didone innamorata follemente
era oramai di Idomeneo, ammirata
dal suo coraggio, che l'avea portato
a condurre attraverso tutti i mari
i suoi compagni transfughi, e bramava
di farlo sposo suo e re di Cartagine.
Si confidò per questo la sovrana
con Anna, sua sorella, e questa subito
la spinse a infranger quell'antico voto
di fedeltà che fatto avea al marito,
Sicheo, da suo fratello assassinato.
Ella infatti ispirata fu da Era,
la qual tentava di tener lontano
Idomeneo dal Lazio; e il giorno dopo,
mentre il nipote di Minosse e i suoi
prendean parte a una caccia, una tempesta
fece scoppiar fortissima e implacabile,
sì che Didone e Idomeneo cercarono
riparo dentro un unico rifugio,
e amanti i due divennero là dentro.
Ma Cassandra, legittima consorte
del profugo di Cnosso, lo riseppe
ispirata da Apollo, e queste alate
parole gli rivolse: "O sposo mio,
ché indugi in questo regno, quando fulgido
destin t'attende nella terra esperia?
Didone è una regina, mentre io solo
d'un massacrato re sono la figlia,
ma non per me, per te medesmo leva
l'ancora da Cartagine, ed insieme
facciamo vela ancora verso Drépano,
alla ricerca della profetata
scrofa coi trenta maialini, i quali
saran per te l'annuncio della meta!"
Un'altra volta Idomeneo non volle
prestar fede alla moglie, ritenendo
che in lei la gelosia, non lo Smintèo
dall'arco argenteo, allor parlasse: ormai
la passion lo accecava, lui che saggio
sempre era stato in ogni circostanza.
Ma Iperione, cosciente del destino
ch'attendeva i cretesi in quel d'Italia,
Anna ispirò di andar da sua sorella
per riferirle le insistenti preci
della troiana profetessa; subito
in gelosia montò Didone altera,
e tanto odiò Cassandra quanto amava
il figlio di Minosse. Così, in guisa
di dono le inviò una ricca veste;
ma, appena quella misera provvide
con essa a panneggiarsi, immantinente
la stoffa avvelenata prese fuoco,
e morte orrenda la rapì nell'Ade.
Soltanto allora il divo Idomeneo
s'accorse quanto amava la sua sposa,
e quanto mal le aveva provocato
con Didone tradendola, ma tardi
versò l'amaro pianto su di lei.
Ancora ardea la pira funeraria
della giammai creduta profetessa,
quando Iperione s'accostò al cretese
sotto forma del re numida Iarba,
e rivelò che il riprovevol crimine
venne ordinato da Didone stessa.
Subito Idomeneo salì alla reggia
della regina, da gran rabbia acceso,
e le gridò: "Perchè la stirpe hai spento
di Dardano, che amavo qual me stesso?
Forse uccidendo chi più avevo a cuore
pensavi presso te di trattenermi?
Ecco, io parto, almen la profezia
di Cassandra avverando, ora ch'è morta;
nulla ti resterà, fuor che il rimorso,
o perfida, che il tuo Sicheo tradisti
e a tradire Cassandra mi spingesti;
tra i Cretesi e i Fenici inimicizia
per sempre regnerà, perchè innocente
sangue spargesti per il piacer tuo!"
Inutilmente lo pregò dei Tirii
la sovrana: il possente Idomeneo
scese al porto, le navi preparò
e salpò da Cartagine, evitando
di voltarsi a guardar ciò che lasciava.
Allora la regina, d'amor folle
e certa d'esser stata raggirata
da un nume ostile, chiese alla sorella
d'ammucchiar sulla pira ogni ricordo
d'Idomeneo rimasto in casa sua,
sì da poter distruggerlo, ma poi
vi salì sopra con la daga in mano
e urlò strappandosi i capelli biondi:
"Io muoio invendicata, ché non posso
sopravvivere dopo aver perduto
Idomeneo per colpa mia; ma, o Dire
vendicatrici, o Ecate, il grido mio
ascoltate: se il Fato vuol che un giorno
la terra esperia tocchi quel dannato,
sia tormentato dall'attacco audace
d'un popol bellicoso, sia strappato
dall'abbraccio del caro suo Idamante,
e veda dei suoi fidi strazio orrendo.
Né, pur piegandosi a umiliante pace,
non goda del suo regno e della luce,
ma avanti il giorno suo cada trafitto
ed insepolto giaccia! Questa prece
effondo col mio sangue. E voi, o Tirii,
queste inferie alle ceneri mie offrite:
nessun patto sia mai tra voi e loro,
nessun amore. E tu, vendicatore,
sorgi dalle mie ossa, con il ferro
e con il fuoco gli esuli Cretesi
perseguita persino in casa loro:
contrari i lidi ai lidi, l'armi all'armi,
i nipoti ai nipoti, finché spenta
per sempre sia d'Europa la progenie."
Ciò detto, il ferro si cacciò nel petto
e il nero sangue corse; impietosita,
Era mandò da lei la rugiadosa
Iride, ch'ha ali d'oro, e mille e mille
colori trae dal sol; dal capo suo
svelse il capello a cui la vita nostra
è legata da sempre, "Questo a Dite"
dicendo, "io consacro, e dal tuo corpo
ti sciolgo." In quell'istante all'Orco Stigio
tra i venti alati volò via la vita.
Libro X
Idomeneo agli Inferi
Giunse a Drépano intanto Idomeneo,
e fece celebrare i novendiali
giochi in onore della moglie uccisa:
per lei gare di corsa, pugilato,
tiro con l'arco, ed anche una regata,
il tutto per colei che mai creduta
fu in vita, e solo in morte ebbe gli onori
che ad una principessa si confanno.
Nel corso delle gare, le cretesi,
istigate da Era, dieder fuoco
alla flotta, gridando d'esser stufe
di peregrinazioni, ma l'Egioco
mandò una pioggia torrenzial, la quale
spense l'incendio, e solo quattro navi
andaron perse. Di Minosse il figlio
permise tuttavia che i più restii
a proseguir restassero in Sicilia,
e il mar riprese ancora. Palinuro,
il nocchiero infallibile, purtroppo,
preso dal sonno, cadde in mar, e a lungo
lo pianse Idomeneo, che il nome suo
diede alla punta presso cui attraccò.
Il Sole Iperïon lo spinse poscia
a soffermarsi a Cuma, per discendere
nel buio Averno, e consultar lo spirito
di Deucalione, il padre suo, e conoscere
la gloria della stirpe di Minosse.
Giunto al tempio d'Apollo, che da Dedalo
era stato istoriato, la Sibilla
Cumana interrogò, e con lei raggiunse
dell'Erebo la porta, ch'è guardata
dal can trifauce Cerbero; ma questi
fu addormentato dalla gran Sibilla
che una focaccia magica gli diede.
Varcaron poi lo Stige, sulla barca
del nocchiero Caronte, dopo avere
incontrato di Palinuro l'ombra,
che Idomeneo pregò di seppellirlo
perchè trovasse pace. Oltre il nebbioso
e misterioso fiume, con sorpresa
Idomeneo incontrò il nonno Minosse,
da Zeus eletto giudice dei morti,
ed entrò poi nei Campi del Dolore,
dove stanno i suicidi e tutti quelli
che prematuramente sono morti,
tra cui guerrieri valorosi, e molti
bambini che un eterno pianto piangon,
da un'immatura morte al dì rubati.
Tra loro Idomeneo vide Didone
e cercò di parlarle, ma l'offeso
spirito se ne andò, senza rispondergli
nemmeno una parola. La Sibilla
lo guidò allora all'Erebo, prigione
perenne dei dannati, che tre giri
circondano di mura, e il Flegetonte,
il gran fiume di fuoco. Ancor più oltre
ecco gli Elisi Campi, dove i buoni
godono della luce. E ecco Cassandra
venire incontro a suo marito: tosto
d'abbracciarla cercò il cretese eroe,
ma tre volte sfuggì l'amplesso suo.
"Ombra sono, non carne più", Cassandra
gli ricordò, ma lo guidò dal padre,
Deucalione, che l'invitò a percorrere
con lo sguardo del Lete tutto il corso.
Mille anni si purifican gli spirti
nella valle beata, quindi bevono
del Lete l'acqua, che dona l'oblio
della vita passata, e si reincarnano
in un eterno ciclo. Idomeneo
poté così ammirar la stirpe eletta
da lui discesa, d'Alba Longa i capi,
poi i sovrani di Roma, ed i guerrieri
che l'avrian resa grande: coi Tirreni
industri si sarebbe fusa un giorno
la stirpe di Minosse, dando vita
a una stirpe d'esperti marinai,
e per primi i Sanniti, quindi i Punici,
poi i Greci, i Persi, i Celti, gli Egiziani
avrebbe vinto la sua alata flotta.
Ed ecco Cesare Ottaviano Augusto,
di Roma lo splendore, sotto al quale
sarebbe stato in pace tutto il mondo,
dalla Britannia fino ai cinque bracci
dell'Indo e all'Etiopia, e rinserrato
di Giano dai due volti il sacro tempio.
Infine, il nostro eroe vide lo spirto
di un ragazzo glorioso, destinato
a succedere a Cesare suo suocero
nel governo del mondo: o giovinetto
degno di somma lode in pace e in guerra,
tu Marcello sarai! A piene mani,
oh, date gigli bianchi, fate ch'io
copra di fiori la romana speme!
Così, vagando pei campi dell'aria,
tutto il cretese vide, e quando l'ebbe
condotto ovunque il genitor, e gli ebbe
acceso il cor della futura gloria,
gli disse infine quali guerre truci
avrebbe avuto ancora da combattere,
le stirpe di Laurento e le città
del Lazio ancor gli disse, fino a quando
venne il momento alfin di separarsi.
Salì di nuovo al sole Idomeneo,
l'arco eburneo dei sogni attraversando,
dopo aver detto addio all'augusto padre
ed alla sposa, lieto del destino
che la gente attendea da lui discesa.
Idomeneo incontra la Sibilla Cumana (Corrado Giaquinto, olio su tela
Libro XI
Idomeneo nel Lazio
In quei luoghi morì, carica d'anni,
Caieta, la nutrice dell'eroe,
che render volle eterno il nome suo
dandolo al lito esperio, proprio là
dove poscia Gaeta sarìa sorta.
Superò poi di Circe il promontorio
la flotta dei cretesi, e giunse alfine
all'estuario di un gran fiume, il Tevere,
che da altissimi boschi era ombreggiato.
Approdò Idomeneo con tutti i suoi
e, in mancanza di tavole, impastarono
delle focacce, a mo' di piatti usandole,
e mangiando pur esse; in questo modo
s'avverò di Celeno il tristo augurio,
e compresero d'essere alla meta.
Mandò perciò il divino Idomeneo
ambasciatori al re Latino, il figlio
di Fauno, re dell'urbe di Laurento
da innumeri anni ormai, di gloria carico
conquisa in lunghe ed onerose guerre.
Questi accolse i cretesi come amici,
di doni li coperse, e spiegò loro
che un oracolo aveva preannunciato
l'arrivo da oltremare di un eroe,
in cerca di una nuova patria, il quale
l'avrìa trovata nell'aperto Lazio,
qual novello Saturno, e che sua figlia
Lavinia avrebbe preso in moglie, in modo
da dar vita a una schiatta di guerrieri.
Era però non era ancor disposta
a arrendersi al Destino: appena giunse
agli occhi suoi la luce della pira
che consumò Didone, come un falco
giunse nel Lazio, e richiamò dagli Inferi
la furia Aletto, che per crini ha vipere,
per seminar discordia tra gli italici:
questa invasò la sposa di Latino,
Amata, che da sempre era contraria
a dar Lavinia in sposa a un forestiero,
e a Turno, re dei Rutuli possenti,
d'iniziativa sua l'avea promessa.
Amata sollevò tutte le donne
della città contro i cretesi, e Turno,
lui pure posseduto dalla furia,
chiamò alle armi tutti i suoi guerieri,
ben deciso a riconquistar la mano
di Lavinia, volendo essere lui
a generar d'eroi l'invitta stirpe.
Latino, contrarissimo allo scontro
con i cretesi, che ritenea ospiti,
si chiuse nella reggia, rifiutandosi
di spalancar le porte del delubro
di Giano dai due volti, come d'uso
era in tempo di guerra. Allor Giunone
le aprì con le sue stesse mani, e Turno
fece sfilare tutti i suoi guerrieri
e gli alleati suoi: Mezenzio, il sire
di Cere, dai suoi stessi cittadini
scacciato per la crudeltà infinita
mostrata nel governo, e il figlio suo,
Lauso, cui niun più bello fu in Italia.
Poi Aventino, di Rea Silvia figlio
e d'Ercole, che dal suo genitore
avea preso il valor e la possanza;
Ceculo, il fondatore di Preneste,
che figlio di Vulcano venìa detto
ché da infante trovato fu nel fuoco;
e poi Messapo, Clauso, Aleso, Ufente,
Umbrone, Virbio, e più di tutti altera
la vergine Camilla coi suoi Volsci.
Era questa la figlia di Metabo,
signore di Priverno, che cacciato
fu dai sudditi suoi perchè tiranno,
si rifugiò tra i boschi con la figlia
e qui la crebbe, fino a che divenne
al pari delle Amazzoni valente.
Molti in sposa la vollero, ma indarno,
perché il padre l'aveva consacrata
a Diana, e per sempre ella pretese,
in onor della dea, di restar vergine.
Ambasciatori vennero mandati
anche a Siponto, presso i fieri Dauni,
che avean accolto nella loro terra
Diomede, l'eroe greco, ripartito
dalla sua Argo ricca di cavalli,
poi che Egialea, la sposa sua, scacciato
l'aveva dietro impulso di Afrodite,
ancor sdegnata per la grande parte
ch'ebbe il guerriero nella fin di Cnosso.
Diomede, non ancor pago di guerre
contro i Cretesi, diede il proprio assenso
e marciò verso il Lazio coi suoi Dauni,
ma ancora era lontano. Idomeneo
si chiedeva che far, essendo giunto
in pace a mane, e a sera ritrovandosi
l'intero Lazio in guerra contro lui;
quand'ecco, il prese il sonno, e Tiberino,
il dio del fiume, apparve a lui tra i pioppi
che fan corona alle sue verdi sponde.
"Figliuol di Deucalione, non temere",
gli si rivolse con benigno volto:
"il Fato vuol che qui dimori il sangue
di re Minosse, e con il mio si mescoli
per generar la stirpe che la Terra
intera sottometterà con l'armi.
Quando ti desterai, vedrai la bianca
scrofa con i suoi trenta maialini
che ti fu profetata, e che offrirai
in sacrificio a me; lascia Laurento
quindi, e il mio corso con l'agili navi
risali fino a Pallanteo: là regna,
fra i Sette Colli, il saggio sire Evandro
il qual da sempre in guerra è con i Rutuli:
egli t'aiuterà a farti alleati
i Tirreni fortissimi, che sognano
sol di schiacciar di Turno l'alterigia."
Disse, e tornò nel letto suo ad immergersi.
Si ridestò il possente Idomeneo,
trovò la scrofa, la sacrificò
e ripartì per risalire il Tevere.
Giunse così fra i profetati colli
della futura Roma, e al Palatino
si diresse, ove Evandro a braccia aperte
l'accolse e lo rifocillò; di Caco
gli mostrò l'antro, dove il mostro ucciso
fu dal figlio di Alcmena, ché rubato
gli avea le greggi, e, i sacerdoti Salii
riuniti, fece lor cantare un inno
in onor della stirpe di Minosse.
Gli consigliò poi di recarsi a Cere
che il tiranno Mezenzio avea scacciato,
ed or sol attendeva un condottiero
per vincer Turno: insieme a lei per certo
tutti i Tirreni avrebber preso l'armi
sotto la guida del minoico eroe,
per regolar con Turno i propri conti.
Per la notte con sé trattenne Evandro
il prode Idomeneo, mentre Iperione,
sotto il mar tramontato, si recava
alla fucina sotto l'Etna, dove
Vulcano con i tre Ciclopi, Stérope,
Arge e Bronte, lavora eternamente
per forgiare degli immortali l'armi,
e gli commissionò un usbergo splendido
e uno scudo per il pupillo suo.
Il mattino seguente, Idomeneo
ripartì verso Cere, e il prode figlio
del re, Pallante, volle andar con lui
con duecento guerrieri, per mostrare
il valor suo in battaglia. In una valle
a tutti solitaria, il dio del sole
consegnò l'armi al vagabondo eroe
ch'avea Vulcan per lui forgiato in fretta.
Sul grande scudo avea l'Ignipotente
istoriato la gloria dei Romani,
di là ancor da venire: si vedeva
la Lupa che allattava i due gemelli,
delle Sabine il ratto, ed il supplizio
di Mezio atroce, ed il valore altissimo
d'Orazio contro l'invasor Sannita,
che gli Etruschi volea scacciar dal Lazio.
Ecco poi l'oche starnazzar, salvando
dai Galli il Campidoglio; il gran trionfo
a Zama di Scipione sopra Annibale,
Catilina che agli Inferi sprofonda
poi che scoperta vien la sua congiura,
Cesare che sconfigge a Carre i Parti
conquistandone il regno, e infin ad Azio
la vittoria di Cesare Ottaviano
sopra Antonio e Cleopatra, e il suo trionfo
mentre i popoli tutti della terra
gli recano tributi, e a lui s'inchinano
come a quei che alle guerre pose fine!
Tutto, ignaro, ammirò di Creta il figlio
nello scudo vulcanio, e sopra l'omero
alzò dei figli suoi la gloria e il fato.
Intanto, su consiglio di Giunone,
a sorpresa attaccò Turno i cretesi,
ma questi avean fortificato il campo
da loro eretto in riva al padre Tevere,
e dalle mura loro non uscirono;
Idamante, il figliuol d'Idomeneo,
non raccolse la sfida del rivale,
consigliato dal Sole, e dimostrò
d'esser ben degno dell'eroe suo padre,
anche quanto a prudenza, e non soltanto
per la forza che il braccio suo mostrava.
Allor Turno tentò di dare fuoco
alle navi cretesi, ma Cibele,
di Zeus la madre, in ninfe le mutò.
Tentarono due prodi giovanetti
di attraversar le linee dei nemici
a notte fonda, per Idomeneo
informar dell'arrivo di Diomede,
prossimo già a Laurento, ma Volcente,
che con gli armati suoi venia a portare
a Turno una missiva di Latino,
li sorprese e li uccise; insieme caddero
perchè l'un l'altro abbandonar non volle,
tanto essi erano amici, e le lor teste
infilzate su picche agli assediati
venner mostrate. Il giovane Idamante
decise allor di vendicarli, e uscì
dal campo suo fortificato, insieme
al fior fiore dei suoi. Turno attaccò,
ma nella confusione restò chiuso
dentro il campo cretese, e menò strage
d'innumeri nemici; infin, buttatosi
tutto armato nel Tevere, da questi
fu riportato sano e salvo ai suoi.
Idomeneo, con il capo velato e l'asta regale, sacrifica la scrofa in onore dei Penati, il cui tempio
rettangolare si nota in alto a sinistra (Pannello situato sul lato principale dell'Ara Pacis a Roma)
Libro XII
Il duello finale
A quel punto l'Egioco, degli dèi
e dei mortali il padre, tutti i numi
chiamò a consesso sotto le splendenti
volte d'etra e cristallo dell'Olimpo,
e lamentò: "Cos'è codesta strage?
I Fati voglion che del gran Minosse
la stirpe tra le valli dell'Esperia
trovi una nuova patria, e possa un giorno
riunificar il mondo; chi ancor tenta
d'ostacolar il corso del Destino?"
"La tua sposa, o Cronìde, è responsabile
di tutto questo", gli rispose il Sole
cui brilla luce in fronte in sempiterno:
"ella i cretesi ha in uggia, dal momento
che Agenore le preferì Afrodite,
e Idomeneo perseguita anche quando
di Cnosso solo più il ricordo resta."
"È d'Iperion la colpa", ribattè
Giunone, "che incoraggia il suo protetto
a posseder la donna altrui, per compiere
profezie che la gloria gli promettono!"
"Ora basta!" La voce dell'Egioco
rimbombò tra i palazzi eterni, come
tra le balze rimbomba lungi il tuono:
"quello che decretato fu, ha da compiersi.
Nessun tra gli immortali s'intrometta
più tra le guerre che laggiù combattono
i nati di Prometeo: il lor valore
deciderà gli scontri, e non l'aiuto
dei numi che il Destin cerca di flettere!"
Chinaron mesti il capo Elio e Giunone.
Intanto dalle rive Daunie giunse
Diomede sulle tiberine sponde,
ma quando tutto ormai parea perduto
per Idamante e i suoi, ecco arrivare
un esercito immenso di Tirreni:
davanti a tutti quei guerrieri arditi
cavalcavan in tre: l'eroe cretese
Idomeneo, Pallante il coraggioso
e Tarconte, tra i regi che dal lidio
paese venner nella terra ausonia
certamente il più forte e rispettato.
Turno, Mezenzio e Dïomede subito
andaron loro addosso, e sulle rive
del Tevere sembrò riprender fuoco
la gran Guerra di Cnosso, come quella
scoppiata sol per causa di una donna!
Pallante come un vero eroe condusse
di suo padre i guerrieri, ma il sovrano
dei Rutuli gli venne incontro, e dopo
aspro duello, il trapassò con l'asta
e il balteo gli rubò, che il padre Evandro
gli aveva dato prima che partisse
verso un destin di gloria breve e atroce.
Quando cader lo vide, Idomeneo
fu folle di dolor, e menò strage
di latini e di rutuli e di volsci;
egli inseguiva Turno, per ucciderlo
e vendicar Pallante, che oramai
come suo figlio avea preso ad amare.
Ma Diomede gli si parò dinanzi
e l'affrontò in duello, con alate
parole disfidandolo: "Ricordi
quando in terra di Creta pugnavamo?
Destino è che tu sia sempre sconfitto,
Idomeneo, nella tua patria e altrove!"
Ma ormai il cretese avea dentro la forza
di trenta uomini immani, e il sire d'Argo
uccise là dov'egli si trovava;
ai Dauni il corpo suo restituì
Idamante più tardi, e lo portarono
essi all'isole Tremiti, sul lido
seppellendolo infine; e tanto piansero
che Afrodite li volle trasformare
in grandi uccelli, detti diomedee,
che in sempiterno del lor caldo pianto
bagneranno la tomba dell'eroe.
Ma intanto Idomeneo tornava in caccia
di Turno, come il veltro che la pista
segue della sua preda, e non la molla
finché i denti non ha nella sua carne;
allor Giunone, ancor desiderosa
di proteggerlo, fece in modo ch'egli
un fantasma seguisse, con sembianza
proprio d'Idomeneo, fin su una nave
di cui tagliò l'ormeggio la dea stessa,
per poi condurlo in salvo fino a Ardea,
la sua città. L'eroe cretese allora
gli diede del vigliacco, e l'ira sua
sfogò contro Mezenzio. Per ucciderlo
stava oramai, quando suo figlio Lauso
s'intromise, ma solo per sentire
d'Idomeneo la spada tra le carni.
Visto portar il corpo di suo figlio
sopra il suo scudo, fu Mezenzio vinto
dall'ira e dal dolore, nella mischia
si gettò e per tre volte inutilmente
contro il figlio di Creta il giavellotto
scagliò, finché costui non gli rispose:
"Vedi, Mezenzio, come l'asta mia
al primo colpo ti passerà il cuore!"
E con un lancio solo al suol lo stese.
L'alba seguente dei due re avversari
fu innalzato il trofeo, e di Pallante
celebrate le esequie; il corpo suo
al padre Evandro fu restituito.
Vennero di Latino gli emissari
a Idomeneo, chiedendogli una tregua
di dodici dì per dar sepoltura
ai corpi degli uccisi; il generoso
figlio di Deucalion acconsentì.
Allor chiamò Latino a parlamento
tutti i guerrieri suoi; stanco di guerre,
di stragi ed uccisioni, egli propose
la pace coi cretesi: a lor concesso
sarebbe un territorio a nord del Tevere,
perchè la lor città vi edificassero.
Drance d'accordo fu, ma Turno altero
non ne volle saper; giusto in quel mentre
arrivò Idomeneo con le sue truppe,
che con i cavalieri suoi Laurento
tentò di prender di sorpresa. Allora
Turno affidò a Camilla la difesa
della città, e l'amazzone andò incontro
ai guerrieri di Creta ed ai Tirreni,
ma nella mischia Arunte a tradimento
la colpì con la sua saetta alata.
Così morì la vergine guerriera
che dei Volsci fu il vanto, e le sue schiere
la piansero per sette dì e sei notti.
Acca, guerriera di Camilla, a Turno
portò notizia della fine acerba
dell'alleata sua; questi, sconvolto,
abbandonò la postazion da cui
sperava di sorprendere il cretese,
lasciando campo libero ai nemici.
A questo punto Turno da Latino
andò per annunciargli l'intenzione
di por fine alla guerra come un tempo
s'usava tra gli eroi: con un duello
con il rivale. Di Laurento il sire,
Lavinia, Amata, tutti si sforzarono
di trattenerlo, ma era presa ormai
la decisione. Sennonché Giuturna,
di Turno la sorella, che da Giano
aveva avuto l'immortalità,
divenendo la ninfa delle fonti
che sgorgano nel Lazio, ancor tentò
di salvare il fratello, e scoppiar fece
nuovamente la guerra tra i due eserciti;
Idomeneo colpito fu a un ginocchio,
e il medico Iapige fu costretto
a riconoscer ch'era troppo grave
la ferita per l'arte sua. Fu allora
Iperione a raccogliere sull'Ida
del dìttamo la pianta, ed a versarne
l'infuso dentro l'acqua che Iapige
usava per lavare la ferita:
subito la saetta balzò fuori
come per arte magica dall'arto,
e Idomeneo, ripreso il suo vigore,
tornò tosto sul campo di battaglia:
si fece largo tra i nemici, in cerca
di Turno, e strage orrenda menò intorno;
cretesi e etruschi intanto la città
di Laurento assaltarono, ed Amata,
credendo Turno morto, si impiccò;
fino al ciel giunse di Lavinia il pianto.
Giuturna tentò ancora di proteggere
Turno da Idomeneo: prese l'aspetto
dell'auriga Metisco, e portò via
il fratello dal campo di battaglia;
ma questi se ne accorse, e proclamò
di voler una morte dei suoi avi
più valorosi degna, la lasciò
e corse verso la città assaltata.
Lo riconobbe Idomeneo, e riprese
il duello interrotto: tosto l'armi
di Turno in pezzi andarono, cozzando
con l'usbergo divino del nemico,
ma Giuturna gli diede un'altra spada,
ed Iperion al figlio suo una lancia.
Un gran sasso dal suolo colse Turno
per scagliarlo su Idomeneo, ma ormai
più non aveva forze: gli negava
il successo la Dira. Erano in preda
i Rutuli al terrore, e anche Giuturna
abbandonato avea il fratello ormai,
certa della sconfitta inevitabile;
e mentre egli esitava, Idomeneo
scagliò l'asta fatale di lontano.
Mai a scoppio di fulmine rimbombano
i tuoni tanto, come giunse l'asta
di Turno sulla lorica, e nel femore
gli si confisse. Cadde il grande Turno
al suolo, mentre i Rutuli strillavano.
Supplice egli le mani tese: "È giusto,
questo destino meritai. Tu puoi
usar della tua spada, Idomeneo.
Ma se il misero padre Deucalione
ricordi ancora, abbi pietà del mio,
e concedimi grazia, o figlio d'Elio."
Gliel'avrebbe concessa il generoso
Idomeneo, se non avesse visto
brillare indosso a Turno l'aureo balteo
del giovane Pallante; allora d'ira
terribile s'accese, e urlò: "Tu dunque,
vestito delle spoglie dei miei cari,
mi sfuggirai di tra le man? Pallante
con questo colpo vuole vendicarsi
di te nell'assassino sangue tuo!"
Ciò detto, dentro il cuor l'acuta spada
gli immerse immantinente, e con un gemito
la vita sua fuggì trista tra l'ombre.
La Lupa Capitolina
Epilogo
Il giusto Idomeneo restituì
di Turno il corpo al padre suo, e divenne
marito di Lavinia; con l'aratro
segnò le mura di una città nuova
che Lavinio chiamò. Quando Latino
fu chiamato tra i morti, egli divenne
sovran del Lazio, e Silvio, un nuovo figlio
dalla moglie gli nacque. Per trent'anni
regnò con equanimità e prudenza,
mentre i cretesi ed i latini un solo
popolo divenìan. Così ebbe fine
d'Idomeneo il peregrinar lunghissimo,
e la terra d'Ausonia prosperò.
E quando infin conobbero il lor termine
dell'eroe i dì mortali, Elio Iperione
nel Tevere lo immerse, e da ogni scoria
terrestre lo purificò; l'ambrosia,
ch'è cibo degli déi, Zeus gli concesse,
e fra i numi fu assurto, mentre Silvio
a Lavinio restava, ed Idamante
Alba Longa fondava. Ma i latini
Iulo, "il lanuginoso", lo chiamavano,
sì che da lui la Gente Giulia scese
e Giulio Cesare Ottaviano Augusto,
dei mortali il più giusto e il più prudente.
E se la mia fatica vi è piaciuta,
ringraziate la Musa con applausi
e alzate libagioni a Zeus per me.
Fine
Nota: Parte del materiale di questo poema fu riutilizzato da Giambattista Varesco (1735-1805) per scrivere il libretto dell'opera lirica "Idomeneo Re del Lazio" (K366), musicata nel 1780 da Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791), e rappresentata la prima volta al Residenztheater di Monaco di Baviera il 29 gennaio 1781.
P.S. a questo link potrete leggere ed ascoltare "La storia romana in versi e in musica", colossale lavoro di Alberto Cavali e Brunello Ercoli!