- Raduna in fretta le tue cose, prete. Non c'è molto tempo.
Senza attende risposta, il massiccio cavaliere varcò la soglia della sacrestia e si avviò per l'ampio corridoio che menava al cortile del monastero. L'eco metallico della corazza, che risuonava al ritmo vigoroso dei suoi passi, riempì il silenzio nel quale Padre Gualberto affrettava i preparativi.
Il vecchio sacerdote soppesò il cinturone, già ricolmo delle pergamene con gli esorcismi principali, e volse uno sguardo triste allo scaffale che conteneva i venti eleganti volumi delle Etymologiae di Isidoro da Siviglia. Sospirando, si chinò a riempire la bisaccia: olio santo, unguenti, reliquie... niente che avrebbe potuto fare veramente la differenza, nell'imminente battaglia. Ma era tutto quello che aveva potuto preparare in così poco tempo.
Di minuto in minuto, i suoi gesti si facevano più frenetici; il religioso si guardava intorno con rapide occhiate nervose: percepiva qualcosa, come un'ombra che oscurava i mutevoli bagliori delle candele sulle pietre scure. Inquieto, si caricò la borsa a tracolla e si affrettò a sua volta all'esterno, arrancando sul fondo irregolare del cortile sotto il peso del proprio fardello.
Nonostante la luce fosse ancora fioca, il Conte Eceno lo individuò subito e gli rivolse un cenno di saluto, sollevando il pavese, dall'alto del suo stallone corazzato.
- Ci siamo tutti – lo udì dichiarare, ottenendo
l'istantaneo silenzio dei duecento cavalieri di San Giacomo che lo attorniavano, pronti a muovere ad un suo gesto. Uno di loro si staccò dal gruppo e avanzò al piccolo trotto verso il religioso, conducendo per la briglia un magro ronzino. Inespressivo e muto, il cavaliere restò attese mentre
l'altro si issava con fatica in sella, poi voltò il suo destriero e tornò rapidamente in posizione.
- Andiamo – disse il condottiero.
Il gruppo si dispose in una doppia fila ordinata ed attraversò compatto il vasto cortile inzuppato di pioggia, passando in fretta sotto la cancellata. Fuori, la pianura declinava verso l'Adriatico e il delta del grande fiume: la bruma impenetrabile che avvolgeva l'orizzonte ad oriente era segnata da riflessi rossastri, che nulla avevano a che vedere con la luce dell'alba, ormai imminente. Giungeva, con la brezza fredda dei colli, un odore dolciastro di cose morte: tutto aveva un aspetto così innaturale da far accapponare la pelle, ben più dell'insolito freddo in cui era immersa la campagna emiliana, in quei giorni di mancata estate. Mentre la sua bestia arrancava rassegnata dietro al fiero gruppo di destrieri, padre Gualberto si rattristò nuovamente all'idea di lasciare incustoditi i suoi libri, recuperati rischiando la pelle in una necropoli maledetta sotto il cuore di Bologna.
Una voce autorevole e fiera interruppe le sue cupe riflessioni. Silenzioso come lo stiletto di un assassino, il Conte lo aveva affiancato, attardando il passo della sua cavalcatura per adattarlo a quello del vecchio ronzino.
- Siete riuscito a riposare, Padre? – gli domandò con rispetto il comandante di quel manipolo, a cui il sacerdote era stato costretto ad unirsi. Malgrado tutto, fu colpito dalla premura di quella domanda.
- Soltanto verso l'alba, per pochi minuti.
La bocca dell'altro si piegò in un sorriso compiaciuto:
- Con gli anni si impara a dormire anche prima della battaglia.
- Credete che si giungerà presto allo scontro? – domandò il prete, tentando inutilmente di mascherare la propria apprensione.
- Per la Triade! Mi auguro di sguainare la spada prima di domani.
Gualberto rabbrividì a quella profanazione; il guerriero non sembrò accorgersene e seguitò a parlare.
- Avrei voluto affrontare i normanni già settimane fa, prima che i miliziani di Gandolfo si riunissero alle truppe di Oberto da Este.
- Gandolfo è sceso in campo insieme alla Lega imperiale? – domandò con ansia, all'udire il nome del sinistro antivescovo.
- Nessuno, da Canossa, vi informa di ciò che accade in questa guerra? Come potete esser utile al mio battaglione, se non sapete chi sono i nemici?
Punto sul vivo, il sacerdote rispose con tono indignato, alzando la voce.
- La Venerabile Matilde mi ha mandato in soccorso delle vostre truppe, affinché le mie arti servissero a proteggervi dai malefici degli eretici imperiali: non mi intendo di alleanze militari, ma di esorcismi.
- Non è il caso di scaldarsi tanto – minimizzò il condottiero. – Avrete presto l'occasione di mostrare le vostre abilità.
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Le ore del giorno scivolavano via con estenuante lentezza, scandite dal sordo martellare degli zoccoli sulla terra molle: i campi fradici e le collinette boscose si alternavano indistinguibili, mentre il gruppo proseguiva intorno a Modena, evitando le strade principali. I cavalieri sembravano immuni al freddo e alla fatica: si reggevano stolidamente in sella, i sensi obnubilati dalle dozzinali pozioni con le quali usavano drogarsi in guerra. Al culmine di un sanguinoso tramonto, mentre lo squadrone oltrepassava la sommità di un'altura, si stagliò improvvisa all'orizzonte la sagoma del castello di Sorbara. Le mura squadrate e il profilo del torrione, dall'aspetto tozzo e imponente, sembravano assorbire la luce vermiglia che calava dal cielo. Agli occhi esperti del prete, le pietre di quel baluardo della retta fede pulsavano intensamente di un'aura sacra, scaldate dagli ultimi raggi del sole morente.
L'esercito della Lega imperiale era accampato a meno di due leghe dalla fortezza: i torrioni e le travature della macchine d'assedio si stagliavano contro il cielo limpido del crepuscolo, come cupi vessilli di morte. Più in là, dove già si infittivano le ombre della notte, l'orda normanna brulicava nella pianura in un viscido groviglio: Gualberto poteva scorgere l'inquietante volteggiare dei sudari, con cui erano stati avvolti i cadaveri resuscitati, che un vento soprannaturale agitava nell'aria immobile. A tratti giungeva l'eco della lugubre cantilena con la quale i preti imperiali tenevano a bada la loro armata di soldati morti, nell'attesa di scagliarla contro le mura del castello.
- Gran Trino! – sibilò il Conte, scivolandogli accanto: la sua abilità di cavalcare in perfetto silenzio era sbalorditiva quanto la raffinatezza della magia che la permetteva.
- Un'orda imponente – commentò il prete, senza distogliere lo sguardo dal campo dei negromanti. – Non sarà facile averne ragione, messere.
Il condottiero, in tutta risposta, sputò per terra, poi trasse dal fodero un lungo spadone d'argento. La lucida superficie del metallo iniziò a risplendere di un intenso bagliore turchese, che illuminava il volto del paladino con un chiarore spettrale. Il suo viso assunse un'espressione austera e nobile, come se all'improvviso il condottiero avesse preso le sembianze di un eroe biblico.
- L'esercito della Venerabile Matilde muove da sud, insieme agli armigeri lucchesi di Anselmo – annunciò il Conte Eceno, con voce stentorea. – Noi attaccheremo da est le retroguardie delle forze normanne, impegnate nell'assedio di Sorbara: li prenderemo di sorpresa e li rimanderemo tutti all'inferno, si tratti di uomini, o di ombre!
Gualberto non rispose, ma sotto il mantello intrecciò le dita e le agitò in un segno di scongiuro: conosceva bene i poteri dei sacerdoti teutonici e dubitava che, da sole, le armi consacrate dei cavalieri di San Giacomo avrebbero potuto impensierirli.
Ma non c'era tempo per proporre altre soluzioni: d'improvviso, protetti dalla crescente penombra, gli armati di Canossa irruppero dall'altra parte della vallata, al grido di “Viva San Pietro”. Matilde la Venerabile cavalcava alla testa delle sue schiere, vestita di bianco e circondata dall'aura luminosa degli incantesimi di protezione. Mulinando il suo scettro, ricavato da un braccio della Vera Croce, lanciava strali splendenti e squarciava il petto dei pochi soldati che osavano pararsi dinanzi alla sua furia.
Nel campo dei normanni serpeggiava una frenetica confusione: i preti teutonici presero a gridare oscene invocazioni all'Adverso e i non morti, eccitati dal nome del loro signore, si ammassavano per mettersi in formazione, spintonando e mordendosi l'un l'altro, ansiosi di avventarsi sulle carni calde dei soldati. Gualberto attendeva il suo momento, cercando di intuire l'attimo esatto in cui l'orda si sarebbe riversata sugli inconsapevoli soldati di Matilde, che già pregustavano la vittoria. Con occhio attento valutava il caotico ondeggiare della schiera brulicante, dalla quale fetidi tentacoli di tenebra si levavano al cielo sempre più scuro, in attesa del buio completo.
Dall'altra parte della spianata, l'esercito di Canossa aveva rapidamente sbaragliato la Lega imperiale: il Conte Eceno poteva scorgere la figura del vescovo eretico Eberaldo, che fuggiva nudo, gli abiti inceneriti dagli incantesimi con cui aveva tentato di proteggersi. D'un tratto, un lamento lugubre si levò della pianura e un vento soffocante, come il fiato marcio di un sepolcro, spazzò il campo di battaglia. Gli uomini di entrambi gli schieramenti, soffocati dall'afflato pestifero, gettavano le armi e si stringevano la gola con le mani, sputando sangue. Vibrando di maligna esaltazione, la marea dei non morti si tese, come un'unica mostruosa entità, pronta a balzare in avanti e a fare scempio dei soldati inermi, senza distinguere fra amici e nemici.
Ma un istante prima dell'assalto finale, il sacerdote levò al cielo le braccia, tuonando le antiche parole di un potente esorcismo: il cielo notturno si squarciò ed una titanica colonna ardente precipitò dalle nubi, schiantandosi al suolo nel bel mezzo delle schiere normanne. I negromanti, colti alla sprovvista, fuggivano con le vesti in fiamme, lasciando i non morti alla mercé del proprio terrore. Mentre questi sbandavano e si calpestavano, nel disperato tentativo di fuggire al fuoco divoratore, si udì il suono cristallino di un corno, e i cavalieri di San Giacomo caricarono l'orda infernale.
Le spade consacrate brillavano nel buio come piccole comete, le cui code luminose descrivevano gli archi di micidiali fendenti, che i guerrieri menavano senza sosta. I demoni, straziati dal fuoco e dal metallo sacro, laceravano la notte con folli grida, che avrebbero perseguitato il sonno dei sopravvissuti per gli anni a venire.
Indifferente a tutto, padre Gualberto continuava a pregare, le mani alzate contro la notte, il volto tinteggiato dal riverbero degli incendi: pensava a Gregorio, suo Pontefice, perseguitato dal demonio che si agitava nell'anima corrotta di Enrico. Sempre più esausto, il prete teneva lo sguardo fisso sulle mura rossastre del castello, dove erano riposte le speranze della Romanità. I bastioni silenziosi, le guglie slanciate, gli antichi fregi che ornavano i torrioni: erano quelle le pietre su cui si poggiava, nei tempi più oscuri, la fede Trinitica. Sentiva il corpo spezzarsi, prosciugato dall'immane sforzo necessario a mantenere l'incantesimo abbastanza a lungo per dare il tempo ai paladini di distruggere uno ad uno gli esseri infernali. La vita gli sfuggiva, ma le forze non l'avrebbero abbandonato, non prima dell'alba: Gualberto ne era sicuro, così come era certo che il suo martirio gli avrebbe dischiuso le porte della casa del Trino.
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- Vittoria! Vittoria! La Lega imperiale è sbaragliata.
Nella livida aurora, le urla dei vincitori si levavano gioiose, coprendo i flebili lamenti dei feriti; luminosa come un'alba di sole, Matilde di Canossa varcava le porte di Sorbara, acclamata dalle schiere dei sudditi fedeli. Sul campo di battaglia, un vento gagliardo spazzava via, assieme alla nebbia, gli ultimi brandelli di oscurità e fetore, mentre l'aria fresca del mattino carezzava pietosa il volto dei morti.
Sulle pietre di Sorbara, bagnate di rugiada, ardeva limpida la luce del giorno.
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Diamo ora la parola a Dario Carcano:
Servus servorum Dei
Eccoli. Dalle mura aureliane si vedeva il campo dell'esercito che assediava Roma, la Città Eterna. Erano lontani i tempi in cui Roma era il centro del mondo, dove i barbari vi arrivavano solo come schiavi e prigionieri di guerra, i tempi in cui bastava solo pronunciare il nome dell'Urbe per incutere timore a tutti i sovrani del mondo.
Tempi ormai lontani, nel ricordo dei quali Storia e leggenda si mescolavano. Gli imperatori che secoli prima avevano costruito e abbellito l’Urbe avrebbero pianto alla vista di quello spettacolo. Un’orda di barbari puzzolenti che impunemente assediava Roma. Nessun esercito aveva provato a fermarli; non l'Imperatore, per cui ormai Roma era poco più di una fastidiosa periferia; non l'esarca Romano, che anzi era il responsabile di quell'invasione, avendo mandato a monte ogni tentativo di pace; tantomeno il dux Giorgio, le cui truppe, poche e mal pagate, bastavano a malapena a tenere le mura.
I romani dalle mura vedevano i barbari, e si affollavano nelle chiese a pregare per la salvezza della Città, consapevoli che questa non sarebbe arrivata dalle armi romane. Romane per modo di dire, perché cosa avevano di romano quei soldati? Parlavano greco, siriano, copto, armeno, di latino sapevano solo gli ordini che gli avevano insegnato a bastonate, ed erano pagati da un imperatore che a Roma non si era mai fatto vedere e si ricordava di essere romano solo quando bisognava far pagare le tasse.
Ma non c'erano solo i soldati e i romani sulle mura. C'era un'altra figura. Una figura che nonostante un corpo minuto e un volto sofferente, sia a causa della gotta che per quello spettacolo a cui era costretto ad assistere, emanava forza morale e fermezza spirituale, e suscitava l'ammirazione dei presenti.
Si trattava del vescovo di Roma, papa Gregorio. La persona più influente presente nella Città Eterna. Negli anni precedenti, quando il re dei Longobardi aveva invaso i territori romani, aveva cercato con lui un accordo di pace, solo per vedere i propri sforzi distrutti dall'esarca Romano, che attaccando i longobardi aveva fatto naufragare quel tentativo.
No, non poteva sopportare più a lungo quella vista. Tornò al Laterano, assieme al suo seguito che lo aveva accompagnato sulle mura. Lì chiese di essere raggiunto dal dux Giorgio e dal prefetto Catulino, i rappresentanti a Roma dell'Imperatore romano.
Quando entrambi furono nel suo studio, la prima cosa che chiese fu:
“Quando avete intenzione di attaccare e rompere l’assedio?”
Il dux Giorgio, comandante militare della Città, rispose perplesso al pontefice:
“Santità, non ci sarà nessun attacco. Lo sapete benissimo che i soldati a Roma sono pochi, e che da Costantinopoli sono mesi che non arrivano le paghe. Sto già facendo fatica a tenerli sulle mura, se andassi a dirgli che andiamo all’attacco dei lombardi mi ammazzerebbero senza troppi rimorsi.”
“Allora cosa intendete fare? Aspettare che finiscano le scorte di cibo e che la Città sia costretta a capitolare?” poi rivolto al prefetto aggiunse:
“Andrai a parlare con Agilulfo?”
“E perché dovrei?” rispose stupefatto il prefetto.
“Beh, con un incontro a quattr’occhi si possono risolvere molte cose. Se voi andaste dal re nemico, forse potreste convincerlo a togliere l’assedio alla Città.”
“Non credo servirebbe a molto, Agilulfo non si fida dei funzionari dell’Imperatore” disse il dux Giorgio.
“Avete qualche idea migliore?” chiese il pontefice.
“Beh, visto che Costantinopoli è lontana, se sua Santità fosse disposta a pagare gli stipendi arretrati dei soldati potrebbe esserci l’attacco che desidera.”
“Se proprio devo spendere denari di tasca mia, preferisco farlo per cercare direttamente un accordo che salvi Roma, piuttosto che per rimediare alle mancanze dell’Imperatore.”
“Dobbiamo forse ricordare a sua Santità che anche il vescovo di Roma è un funzionario imperale?”
“Certo, ma il mio dovere primario come vescovo è essere il pastore del mio gregge, e proteggerlo. E io proteggerò il mio gregge, a costo di andare contro alla volontà dell’Imperatore.”
“Avete intenzione di andare a parlare con Agilulfo?” chiese il dux Giorgio con un misto tra rabbia e preoccupazione-
“Sì. Non ho intenzione di permettere che Roma diventi un emporio di schiavi. Andrò oggi stesso a parlare col re lombardo.”
Alcune ore dopo il papa e il re Agilulfo erano uno di fronte all’altro, nella tenda del sovrano. Dopo aver offerto da bere all’ospite, offerta che però il pontefice declinò cordialmente, il re disse:
“Se vuoi portarmi le promesse di pace dell’Imperatore, temo che tu abbia fatto un viaggio a vuoto. Le promesse dell’Imperatore hanno il vizio di valere meno di un soldo di peltro.”
“Tu stai parlando dell’Imperatore, non io. La proposta che ti faccio te la sto facendo io a nome della città di Roma, non dell’Imperatore.”
“Non sapevo che l’Impero Romano avesse perso Roma! Comunque, mi sta bene. Qual è la tua proposta per la salvezza di Roma?”
“3.000 libbre d’oro. Oro della Chiesa proveniente dai nostri possedimenti nel Lazio e in Sicilia, e non dell’Imperatore. In più, il pagamento di un tributo annuale di cui stabiliremo l’entità quando le tue truppe si saranno ritirate da Roma.”
“Fai 7.000 libbre d’oro.”
“4.000 libbre, che è già più di quello che otterresti saccheggiando la Città.”
“6.000 libbre.”
“5.000 libbre d’oro.”
“Va bene, 5.000 libbre d’oro per ritirarmi da Roma. Appena ce le avrai fatte portare il mio esercito leverà le tende”
Quando arrivò l’oro e i longobardi levarono l’assedio, la Città eterna esplose a festa. Si diffuse la voce che il papa aveva convinto il re lombardo a desistere dicendogli come la città fosse già stata saccheggiata dagli esattori imperiali. Chi non era contento per niente erano il dux Giorgio e il prefetto Catulino. Cosa voleva fare quel papa? Governare Roma al posto loro? Mettere sul trono un altro Imperatore? O addirittura sostituirsi ad esso?
Figuriamoci, però l’Imperatore non sarebbe stato contento del comportamento del papa, e questo li rallegrava.
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Aggiungiamo la proposta di Stefano Sezzi:
E se Neon Genesis Evangelion venisse scritto nell'XI secolo? Come apparirebbe?
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E adesso, tocca all'idea di William Riker:
Il Medioevo eterno!
Ecco una proposta di ucronia che potrebbe piacere al Marziano: il Medioevo eterno! Esistono tuttora il Sacro Romano Impero simile a quello di Carlo Magno, il Potere Temporale dei Papi, l'Impero Bizantino prima di Manzicerta, il Califfato ‘Abbāside, l'Impero Cinese e l'Impero di Tawantinsuyu. L'obiettivo è di trovare meno Punti di Divergenza che sia possibile per ottenere oggi il risultato di avere queste compagini, senza ulteriori vincoli.
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Gli replica il grande Bhrghowidhon:
Partirei da considerazioni generalissime.
1) Come conciliare il Califfato ‘Abbāside con gli Ottomani e i Ṣafāwidi? Tutti e tre mi sembra impossibile; ipotizzerei un Sultanato di tipo Saljūqide, eventualmente con la Dinastia Ottomana, e la continuità del Califfato ‘Abbāside, senza Ṣafāwidi in Persia. Il Sultanato di Delhi dipenderebbe dal Califfato più o meno come l’Emirato di Bari (quando è realmente esistito, [840/841-]847-871).
2) Come regolarsi quando i territorî del Califfato (anche ucronici, ricavati come sopra indicato) e quelli della Cina si sovrappongono? In questo caso seguirei le vicende storiche, escludendo solo quelle coloniali (v. sotto).
3) Quando invece la sovrapposizione è con Bisanzio, non possiamo seguire lo stesso criterio, perché altrimenti non avremmo più l’Impero Bizantino stesso; in questo caso mi pare che il confine naturale – che è anche quello durato più a lungo – sia lo spartiacque del Tauro e quello fra Bacino del Golfo Persico da un lato (quindi del Tigri e dell’Eufrate) e Bacini del Mar Nero e del Mar Caspio dall’altro (lasciare l’Impero Bizantino alla massima estensione rischierebbe invece di ridurre ai minimi termini il Califfato).
4) Come trattare il Califfato ’Umayyade? Poiché non ha mai fatto parte direttamente di quello ‘Abbāside, temo che non ci siano speranze: i suoi Succedanei verranno annessi dalla Spagna e dal Portogallo.
5) Quale Dinastia continuerà l’Impero Bizantino (esclusi, in questo caso, gli Ottomani)? Se vogliamo conservare Bisanzio come Impero Ortodosso, mi pare inevitabile che sia la Moscovia a fornire, fin dal XV secolo, i nuovi Imperatori.
6) Qual è il confine definitivo fra Bisanzio e il Sacro Romano Impero? Nel Mediterraneo ritengo inevitabili le Conquiste Normanne e Aragonesi, mentre nell’Adriatico potrebbe rimanere un nesso con Venezia (benché cattolica) e il suo Stato da Mar (con riserva sulla Dalmazia, perché è inverosimile che la pressione del Sacro Romano Impero sia sempre e comunque inferiore a quella di Bisanzio); la Serbia resterà nell’orbita bizantina, la Bosnia contesa, Valacchia e Moldavia prevalentemente nella Compagine Imperiale Ortodossa, mentre più a Nord il Confine Confessionale potrebbe non essere dirimente, soprattutto se la Moscovia trasferisce il proprio Centro Principale del Potere a Bisanzio (in pratica, non solo Polonia ma anche Lituania, Ordine Teutonico/dei Portaspada e Ingria nella Compagine Imperiale Cattolica).
7) È da discutere se l’Unione di Kalmar e l’Inghilterra gravitino sul Sacro Romano Impero. Se c’è il distacco da Roma della Riforma Evangelica, propenderei per il no, altrimenti per il sì.
8) Ci sarà il Colonialismo nelle Americhe e in Africa Nera? Vorrei tanto che no, ma non vedo come evitarlo; quello in Asia è bloccato dalla compattezza del Califfato (come in Cina dell’Impero), ma altrove non c’è proprio alcun margine di variazione... Forse se ne può evitare la fase più dura se non hanno luogo le Indipendenze Americane. I Tawantinsuyu saranno un Impero Tributario del Vicereame del Perú.
9) Imperi Mondiali? No, perlomeno non più di quelli realmente esistiti (Spagna, Russia, Gran Bretagna ecc.). Anche le Dinastie – a parte i Ṣafāwidi, i Re di Svezia e poche altre eccezioni – saranno le stesse della Storia reale (con la differenza che le più recenti continueranno fino a oggi, perché è essenziale al nucleo dell’ucronia; i Borboni di Spagna saranno solo di Francia).
10) La Divergenza è che rimane l’idea (non solo né tanto europea) di Comunità Politica Sovraordinata – tendenzialmente Universalistica, di fatto Confessionale – che in Europa è stata tipica del Medioevo: tutti i Sultanati Musulmani (Sunniti) rimarranno sottomessi al Califfato, tutti gli Ortodossi all’Imperatore (nemmeno al Patriarca, con cui saranno semplicemente in Comunione) di Bisanzio; Sicilia, Sardegna, Aragona e Inghilterra rimarranno Feudi Pontifici, Francia, Polonia e Ungheria continueranno a far parte del Sacro Romano Impero (non di quello in senso stretto – ‘Ottoniano’ – della Nazione Germanica e Gallesca, bensì di quello in accezione estesa, erede di quello Carolingio, anche se poi continuato proprio da Ottone III), nel caso che non avvenga la rottura della Riforma Evangelica con Roma la stessa Unione di Kalmar diventerà subordinata all’Impero e gli Hannover faranno altrettanto con la Gran Bretagna e Irlanda. Senza Scismi per la Riforma Evangelica, oggi le quattro grandi Capitali nel (e del) Mondo sarebbero Pechino, Baḡdād, Bisanzio/Costantinopoli e Vienna (questa del Sacro Romano Impero e della Monarchia Asburgica Cattolico-Apostolica Austro-Ungaro-Iberica); l’Impero Britannico (comprese le Tredici Colonie Nordamericane, ma senza l’India) sarebbe, come oggi, dei Sassonia-Coburgo-Gotha, la Polonia-Lituania dei Wettin, l’Unione di Kalmar degli Oldenburg-Sonderburg-Glücksburg, la Russia (con l’Alaska e Krepost’ Ross) e Bisanzio degli Holstein-Gottorp.
Evidentemente non deve aver luogo la Quarta Crociata come la conosciamo e anche la Fase Mongola sarà decisamente diversa (se esiste). Sinibaldo Fieschi smentirà Federico II su un solo punto, dimostrando al Mondo che un Papa può essere Ghibellino... Per l’Europa, tutto ciò suggerisce che il vero Medioevo sia stato da Carlomagno (compreso) alla Rivoluzione Francese (esclusa), più o meno l'Ancien Régime.
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Iacopo dice la sua in proposito:
Ci provo io, con un PoD solo: niente Gengiz Khan.
1) senza Gengiz, i Mongoli al massimo possono sostituirsi ai Liao, ma non conquistano né il Khwarezmshah né la Cina Song.
2) senza la distruzione della Corasmia e i mamelucchi corasmi si Salih, la Settima Crociata non è diretta in Terrasanta ma contro i Mori di Spagna. Con le due crociate seguenti i regni Cristiani mettono piede in Africa (e ci rimangono).
3) senza Hulegu gli Assassini rimangono una fazione importante nel gioco mediorientale. Stessa cosa vale per i Califfi Abbasidi. Col tempo inizia una fase di re-iranizzazione. I Safawidi, senza l'apporto dei Qizilbash turcomanni, rimangono al massimo una setta ismailita. Gli Ottomani non sono spinti in Anatolia, e al massimo posso diventare i protettori dei Califfi.
4) con il declinare della presenza turca in Anatolia (non c'è stato Tamerlano) i Georgiani o i Greci rifondando l'Impero Bizantino (e riconquistano Bisanzio).
5) con l'inevitabile declinare dei Cumani, e senza Lituania, il centro gravitazionale russo si sposta a sud, gettando un ponte verso Bisanzio e preparando l'inevitabile Successione.
6) senza Lituania e Mongoli, Polonia e Ungheria restano satelliti dell'Impero, e prima o poi lo diventano anche i Paesi Baltici. Francia, Aragona, Castiglia e compagnia, essendosi aperte una via di espansione verso sud (e iniziando a sospettare l'esistenza dell'argento del Niger) cercheranno di mantenersi in buoni rapporti con l'Impero, riconoscendone la superiorità almeno formale.
7) i Ming riunificano la Cina. Il commercio tra Europa e Cina passa per le Steppe e la Siberia sempre più Russe (asse Genova-Herson-Beijing) o per gli Oceani e l'Egitto (asse Venezia-Cairo-Nanjing). Più tardi si aprirà anche la Via del Capo. La maggiore permeabilità del Califfato ai commerci europei dissuaderà l'esplorazione spagnola, portoghese e francese dell'Atlantico. Le risorse coloniali di queste nazioni saranno dirette verso sud. Piantagioni in Sudafrica.
8) l'America è scoperta da Ap Mewrig nel 1498. Gli inglesi hanno appena le risorse necessarie a colonizzare il New England. In compenso le epidemie di vaiolo e altre malattie si diffondono fino alla Terra del Fuoco.
9) Guerre di Religione in Europa. Quando i Pellegrini Puritani, Ugonotti e simili arrivano in America, trovano un continente in lenta ripresa dalle epidemie.
10) la Disputa sui Riti è vinta dai Gesuiti (ci sono due secoli di colonialismo in più, seppure un Africa). Stato Gesuita Malankarese feudatario della Santa Sede.
A che punto sarebbe lo sviluppo tecnologico? Forse più indietro che nel nostro mondo (manca il bisogno di calcolare la latitudine, o quello di fondere cannoni leggeri) ma comunque più avanzato che nel nostro '400.
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Bhrghowidhon commenta:
Che Činggis Qaɣan sia colui che ha posto fine al Medioevo e uno dei Padri – per quanto magari un po' involontarî (ma chissà...) – dell'Età Contemporanea è un'idea che merita di finire direttamente nei libri di Storia!
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E Perchè No? aggiunge di suo:
Se l'idea centrale dell'ucronia consiste nel conservare gli imperi dell'Alto Medioevo stabili, forse sarebbe meglio ipotizzare la sopravvivenza della dinastia Tang o della dinastia Song, cioé senza la presenza di dinastie Jurchen (Liao e poi Jin) che hanno diviso la Cina in due e facilitato la conquista mongola. La presenza di Gengis Khan introduce troppi cambiamenti politici e culturali. Poi una dinastia Song aperta sul mare con una marina potente potrebbe avere uno sviluppo interessante. Possiamo forse conservare i Ming direttamente dopo che i Song sono entrati in decadenza. La Cina conserverebbe la sua cultura classica, considerata superiore dagli stessi Cinesi, delle epoche Tang e Song.
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E adesso, il contributo di Arturo Iorio (da questo sito):
Come il mago Pietro Bailardo si salvò l'anima con l'aiuto del diavolo
Pietro Bailardo, gran mago, astrologo ed avventuriere salernitano, era sempre in giro per le terre di Regno alla ricerca della pietra filosofale che gli avrebbe permesso di prepararsi l'elisir di lunga vita nell'eterna giovinezza, unica cosa che il suo Libro del Comando, che si teneva sempre a portata di mano, non poteva procacciargli. Fu per le difficoltà che incontrava nello spostarsi per le terre del Meridione sopra strade malagevoli che un giorno decise di rimediare all'incomodo con una bella strada sulla quale avrebbe potuto viaggiare con agevolezza e comodità. Pensato e fatto! Aprì il Libro del Comando, ed immediatamente il capoccia dei diavoli gli si fece presente a domandargli cose ordinasse. Pietro gli disse che voleva una gran strada che da Roma scendesse per la Marittima attraversando il Regno fino alla Capitanata. "Detto, fatto!" Rispose la brutta bestia e scomparve a radunare e mettere al lavoro le sue legioni infernali. Al risveglio la mattina seguente, Pietro trovò ultimata la grande arteria stradale della via Appia.
Pietro aveva un nipote, un ragazzo piuttosto melenso che rispondeva al nome di Pinco Picchio, il quale però seguiva con molta curiosità le attività dello zio; ed aspettò che una sera il mago uscisse, come faceva non di rado, e Pinco s'introdusse nello studio dello zio a curiosare, sbalordito, fra tutte le cose che vedeva e non capiva. Pietro, oltre ad essere mago ed astrologo, era anche uno sfegatato donnaiolo; e quantunque avrebbe potuto comandare, con il suo Libro, che il diavolo gli conducesse Elena di Troia, Cleopatra, la Regina di Saba od altra donna di bellezza favolosa nel suo letto, era portato verso amori piuttosto difficili, verginelle, donne maritate od in qualche modo vincolate, e preferiva arrampicarsi per finestre, salir sopra balconi, rischiare di essere colto da mariti scornati e padri canzonati, più che entrare per porte lasciate appositamente aperte. Possedeva la prestanza fisica e quel fascino maschile che con lo sguardo faceva sbollentare le donne a dozzine.
Pinco Picchio sapeva che quella sera lo zio era coinvolto in una di tali gioiose tresche, e perciò si prese tutto il suo bel tempo a guardare, vedere, toccare, maneggiare arnesi e congegni, a guardare le mappe del mondo a scartabellare libri con strane scritte e figure di uomini e bestie; poi gli capitò in mano un libricino ben logoro rilegato in marocchino rosso; lo afferrò chi sa perché, lo apri, e si senti come una scarica di fulmini gli passasse per il corpo e quasi quasi stramazzò sul pavimento; ma poi s'irrigidì, e prima si potesse render conto di quanto stava succedendo, si vide ritto avanti un nero diavolo e dietro lui squadre di altri a perdita d'occhio. Stecchito dalla paura, il marmocchio guardava a bocca aperta e quasi se la stava facendo sotto, quando quel caposquadra infernale disse: "Comanda!" Chi sa come o da chi ispirato, Pinco si riprese e ordinò che li dove incominciava la palude pontina si costruisse una imponente basilica con abbazia per i monaci. "detto, fatto!" Rispose l'anima dannata, ed immediatamente scomparve con tutte le sue coorti.
Lo sforzo nervoso era stato tale, che il ragazzo cadde esausto bocconi con la testa nelle mani conserte sul tavolo. Quando Pietro tornò a notte tarda, ci rimase a vedere il nipote in quel modo nel laboratorio delle sue magie, ed era lì per lì a svegliarlo con una gran sberla e cacciarlo via a forza di calci in culo, quando vide presentarsi un capodiavolo ad annunziare che tutto era stato fatto. Il mago si rese allora conto di quanto era successo; sollevato il capo del ragazzo per i capelli, prese e chiuse il Libro del Comando che era rimasto aperto sul tavolo, ed il diavolo scomparì. Alla mattina, quando si alzò che il sole era già alto nel cielo, aprendo la finestra, Bailardo poteva vedere lontano negli approcci alle paludi la linea di pura arte romanica della meravigliosa abbazia di Fossanova, e dovette ammettere a se stesso che quel mammalucco di Pinco Picchio aveva dopo tutto fatto buon lavoro.
Pietro, spirito irrequieto sempre in cerca di risposte ai molti interrogativi che gli sciamavano come api laboriose nella sua fantasia, avido di esperienze, forme e sensazioni nuove, non di rado si andava a cacciare nei guai che, come il cavallo col muso nel sacco pensa solo a mangiare, gli facevano perdere contatto con quello che altri consideravano la realtà delle cose. E fu cosi che, una volta, quasi rimase invischiato come un uccellino nella pania, a dispetto di tutta la sua magia. Capitò che, trovandosi in giro per le terre molisane, s'innammorò di una giovane e bella ragazza. A Pietro le donne gli cadevano fra le braccia con la facilità delle mosche nelle tele di ragno; ma per lui l'amore era tutto fatto di carne ed ossa che, come la scintilla che si sprigiona dall'acciarino, si accende e si consuma in un attimo. Riuscito dopo strettoie e difficoltà ad arrivare fra le braccia di questa fantasiosa e vergine fanciulla, soddisfatte le voglie, l'abbandonò. Quando il padre di lei, che era castellano di quelle terre, si trovò con la figlia fottuta, gravida ed abbandonata per opera di questo maledetto mago avventuriere, giurò di spedirlo decisamente all'inferno, anche se ci doveva andar pur lui dietro nel regno di satanasso. Prezzolò la più bella cortigiana di Napoli, dove allora Pietro si trovava, che con le sue malie adescasse il mago nel suo letto, dopo di che ci avrebbe pensato lui il capitano. Non fu cosa difficile per Arabella, che cosi si chiamava quella donna pubblica, date la sua bellezza e le le arti amatorie di meravigliosa puttana qual era. E fu cosi che Pietro ci cadde come un uccellino nella tagliola delle sue bianche cosce; ed una notte che guazzabugliava con lei nel letto, mentre musici ci suonavano serenate sotto il balcone, i sicari del castellano saltarono fuori dallo sgabuzzino dove erano nascosti, gli misero la mordacchia, lo legarono, ed avvolto in un sacco lo caricarono sopra un asino e di buonora quella mattina quando le guardie aprirono le porti della città se lo portarono verso le montagne del paese. Il castellano, che non riusciva a darsi pace per l'affronto ricevuto, con tutta la gente che rideva sotto sotto per lo scorno al suo onore, cercò di rendergli pan per focaccia riversando su di lui gli sberleffi del popolo. Lo fece rinchiudere in una gabbia di ferro tutto nudo, che issata davanti al castello, ma non troppo in alto, offriva modo ai passanti di beffarlo. Con il Libro del Comando rimasto in una sacca del suo abito nella casa della puttana a Napoli, Pietro si senti per la prima volta veramente perduto.
Sospeso li alle intemperie come un minchione, facile zimbello ai lazzi dei passanti e allo sghignazzare dei ragazzi che gli tiravano sassi e più effettivamente merde d'asino, con gli uccelli che si venivano ad appollaiare sopra la gabbia e gli cacavano addosso, invocava invano i suoi diavoli che lo venissero ad aiutare; ma senza quel libricino rosso a portata di mano, era impotente come un castrone. Ma è proprio vero che la fortuna favorisce sempre i mascalzoni! E un giorno che era già pronto a far chiamare il prete per confessarsi -ma per lui ci sarebbe voluto almeno un vescovo se non il papa stesso per dargli assoluzione per i suoi innumerevoli e svariati peccati e levargli la scomunica per la negromanzia- ma quel di guarda un poco chi si trovò a passare per la piazza e davanti la gabbia! Non altro che il suo insulso nipote Pinco Picchio. Ci volle tutta la voce che gli era rimasta nella gola per richiamarne l'attenzione, e quando il ragazzo attonito finalmente riconobbe lo zio, questi se lo fece venire il più vicino possibile e gli spiegò sottovoce la sua situazione intimandogli di correre immediatamente a Napoli in casa dell'Arabella spiegandogli dove trovare il Libro del Comando e tornare a riportarglielo subito. Il ragazzo, che non era poi cosi stupido come lo pensava lo zio, andò affrettatamente a Napoli dove non ebbe gran difficoltà a introdursi nella casa della cortigiana grazie alle condiscendenze di una sua ancella che Pinco seppe ben bene coccolare, e ritrovò il libro come e dove gli aveva spiegato lo zio. Però, prima di usarlo per liberare il parente, che glielo avrebbe tolto immediatamente, il ragazzo pensò di utilizzarlo per farsi passare certi sfizi che da tempo gli formicolavano per il corpo; ma ignaro ancora degli angifratti ed angiporti dell'amore, per una settimana usò il libro spassandosi ad osservare i fatti degli altri spiando attraverso buchi di serrature, fessure nei muri ed aperture nei soffitti quello che succedeva nelle camere private delle più belle donne di Napoli affaccendate a far l'amore, fino a quella della regina Giovanna che, come si diceva in città, tanti erano gli uccelli che ci avevano fatto dentro il nido da poterne sfilacciare una collana da Napoli alla luna, fino alle servette che se la facevano fare dai guaglioni quando ci capitava; e finito questo itinerario pedagogico, andò a far le prove con Annalora, che gli era piaciuta tanto, la quale lo rifini ben bene con la laurea di "doctor amoris causa". Finalmente ricordatosi dello zio, Picchio chiamò il diavolo, si fece trasportare in groppa da lui sopra la gabbia, e liberatelo, macilento com'era, se lo portò a rimpinzare in una osteria lontano, mentre quel povero castellano ci rimase con due palmi di naso almeno con la figlia che incominciava ad avere le doglie.
Libero come il falco che si libra in cielo e vede il mondo dall'alto, Pietro tornò subito alle negromanzie col suo libretto che metteva tutto il mondo, passato, presente e futuro sulla palma della sua mano, e con avidità si lanciò in avventure amorose e scientifiche quasi volesse rifarsi del tempo perduto. Ma c'era una cosa che il Libro del Comando e tutti i diavoli dello inferno non potevano dargli, cioè l'arresto degli anni che già incominciavano a cavar solchi nelle sue carni e a debilitare le sue capacità fisiologiche e mentali, e l'avanzare inesorabile della brutta carogna della vecchiaia, malissimo sopportata da un tipo come lui. Strano che non aveva soltanto perduto l'appetito per la carne, ma anche per le negromanzie. Non avendo mai avuto ne tempo ne voglia di meditare e nemmeno pensare al mistero della morte, ora la necessità di salvarsi l'anima incominciava a farsi sentire con forza impellente; gli sembrava che non ci fosse rimasto altro in questa vita e perciò bisognava pensare al mondo dello spirito all'aldilà. Con i prodromi della fine che rullavano come tamburi che si inquadravano per l'accompagno, Pietro Bailardo, il gran mago napoletano, uomo carnale interessato a penetrare gli arcani della natura attraverso la scienza della negromanzia, si ritirò in un romitorio all'alto dei monti Lattari al di sopra di Ravello per darsi a far penitenza; ma non fu cosa facile. Quei diavoli che tanto lo avevano servito, ora vennero a tentarlo con una infinità di dubbi, di lusinghe di potere sopra uomini e natura e con apparizioni di donne che gli venivano a riproporre passati amori o ad offrirne dei nuovi più procaci che a Sant'Antonio nel deserto, cercando cosi di potersi portare l'anima del mago nell'abisso infernale.
Un giorno un altro eremita che passava per quelle parti si fermò sulla soglia della casupola di Pietro, a questi egli presentò accoratamente la sua disperata situazione ed il suo tormento. I diavoli, gli diceva, lo tenevano come una mosca con le zampe invischiate nel miele dei suoi ricordi e di promesse di potere e voluttà; e con tutta la sua buona volontà di voler fare penitenze per salvarsi l'anima, era li impotente come un'aquila legata alla nuda roccia.
"Cosa posso propria fare?" Gli chiese il gran Bailardo ora vestito di sacco e con la cenere del suo rustico focolare dispersa sul capo pelato di capelli. "Non ho potuto trovare né prete né vescovo a darmi l'assoluzione!"
"Ascolta." Gli rispose l'eremita ambulante. "Se tu ti vuoi veramente e sinceramente salvar l'anima, c'è un sol modo per farlo. Tu ti devi sentire le tre messe della notte di Natale una dopo la altra: la prima a San Jacopo di Campostella, la seconda nella chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme, e la terza dall'altare si San Pietro a Roma."
"Ma come è possibile?" Disse Pietro a bocca aperta.
"Ma tu sei mago o no?" Gli rispose l'altro, che poi se ne andò a continuare il suo girovagare.
Pietro, rimasto rigido come un stoccafisso, s'arrabbattò con tutte le forze del suo intelletto ricercando un modo come fare l'impossibile. E finalmente la luce gli guizzò come un lampo, rendendosi conto che c'era una cosa sola da fare. Detto, fatto! Prese il Libro del Comando che aveva gettato fra la paglia di scarto -un ultimo dubbio gli attraversò la mente: ma l'avrebbe aiutato la brutta bestia a far ciò? Dato che non c'era tempo per disquisizioni, apri il Libro, ed ecco una schiera di satanassi a sua disposizione. Pietro li squadrò ricercando qualcuno che gli sembrava familiare.
"A quale velocità ti muovi?" Chiese al primo. "Quella del più impetuoso cavallo." Rispose questi.
Pietro lo scartò, passando al secondo. Ma anche questo, che si muoveva con la rapidità del vento, egli dovette scartare, come pure l'altro capace di guizzare come il fulmine. Il mago cominciava a disperare, anche perché la mezzanotte era per arrivare e lui si sentiva nelle ossa che la fine stava per arrivare. Poi scrutando quella schiera infernale, scorse da un lato il Diavolo Zoppo che lui non aveva mai comandato perché, sciancato com'era, non lo credeva buono a troppo. Ma con la necessità che stringeva, si senti che c'era solo tempo di tentar la fortuna. E cosi fece.
"E a che velocità ti muovi tu?" Si volse a dire a costui, certo di rimanere nuovamente contrariato.
"Con l'immediatezza del pensiero umano." Rispose ghignando sotto le corna questo diavolo, che a Pietro parve dotato di scaltrezza napoletana.
"Bene, andiamo! Non c'è tempo da perdere." E messosigli in groppa: "A San Giacomo di Campostella!" Ordinò.
In un attimo furono in Galizia, Spagna, e Pietro entrò nella riverita chiesa di Santiago che la prima messa era per incominciare. Finita questa, il Diavolo Zoppo che nei luoghi sacri non poteva entrare ed era ad aspettare il mago sotto un portico, se lo riprese sulle spalle; e via a Gerusalemme dove il padrone gli ordinò di portarlo. Alla chiesa del Santo Sepolcro dove tra il salmodiare nei riti latino, greco, siriaco ed aramaico il vescovo celebrante saliva la predella dell'altare con gli accoliti. Non appena senti l'Ite missa est, Pietro scappò fuori a ricercare il suo diavolo che trovò a bestemmiare contro Cristo con alcuni maomettani che stavano lì ad oziare. Risalito in groppa, via d'un fiato a San Pietro in Roma. Li, mentre risaliva la scalinata dell'antica basilica del principe degli apostoli, caput mundi. Pietro scorse tra la folla che s'affrettava ad entrare in chiesa non altro che il nipote Pinco Picchio; si fermò un attimo per regalargli il Libro del Comando che non gli sarebbe stato di alcuna utilità nell'altro mondo verso il quale si dirigeva. Picchio ci rimase sbalordito, ma non ebbe nemmeno tempo di ringraziare lo zio il quale si affrettava ad entrare in chiesa. Ma li rimase esterrefatto, che sull'altare della Confessione il papa aveva già intonata la terza messa. Ma Pietro non si diete per vinto; a forza di spintoni si fece via tra chierici e genti armate, sali sulla predella dell'altare e gettandosi ai piedi del papa, attonito, implorò con le lacrime che dagli occhi gli scorrevano per le profonde grinze del viso:
"Se tu quest'anima dall'inferno vuoi salvare, la santa messa devi rincominciare, e dalla scomunica liberare."
Di fronte a tanta fede e desiderio di salvarsi, il papa lo assolse dalla scomunica; poi, richiuso il messale, lo apri nuovamente e con una grande e sonora voce intonò daccapo la messa.
E fu cosi che il gran mago Pietro Bailardo si salvò l'anima con l'aiuto del diavolo.
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Nota dell'Autore:
Pietro Bailardo è eroe tipicamente italiano il quale invece di cercar gloria fendendo con poderose spade da capo a piedi i nemici e perdersi in fantastiche avventure d'amore nei boschi come facevano i paladini di Francia, affrontava la vita a forza di furbizia con gioco di astuzie, e non per l'onore di cosiddetti nobili ideali e lealtà di classe, ma per la sola curiosità di voler vedere cosa c'era dall'altra parte della montagna ed anche per pura soddisfazione nel farsi passare gli sfizi; per lui il mondo non era un macrocosmo tutto ordinato, ma un bei bosco con tanti bei fiori e piante ed animali, ma anche con trabocchetti, panie tese da altri, animaletti noiosi, altri velenosi e bestie feroci, spesso con sembianze umane. Il potere magico lui non se lo era acquistato o conquistato con lunghi studi o prodezze, ma gli era capitato in mano, chi sa come, nella forma di quel libricino con il quale, data la sua ambivalente visione della vita, ci si divertiva a giocare con le forze terrene ed anche quelle celesti a volte. Era questa sua filosofica strafottenza che affascina la fantasia popolare, che per la gente l'elemento magico offriva un modo di rettificare in un certo senso il gioco della vita nel quale le carte erano di già fatte a loro sfavore. Nella sua scanzonata visione del mondo, Bailardo anticipa i grandi avventurieri libertini del secolo XVIII, in particolare Casanova e Cagliostro, entrambi anche maghi da strapazzo. In complesso, egli rimane strettamente uomo medievale mediterraneo intento a controbilanciare le esigenze della carne contro quelle dello spirito, e cioè a salvare capra e cavolo. Questa abilità a conciliare carne e spirito, tecnica e fantasia mette Pietro in netto contrasto con un altro famoso negromante di quei tempo, il famoso tedesco Dr. Faustus, puntualizzando la differenza tra lo homo italicus e lo homo germanicus, rappresentando le due concezioni della vita che dominarono il Medio Evo. Mentre Bailardo, napoletano e mediterraneo riusciva a gabbare anche il diavolo ad aiutarlo a salvarsi l'anima, il tormentato Faust finisce nelle grinfie di quel diavolo che aveva cercato di dominare con la sua scienza.
Nella elaborazione della leggenda di Pietro Bailardo convergono vari motivi narrativi mediterranei, non insignificante quello arabo-orientale che potrebbero far di lui un soggetto per la fantasiose Shahrazàd da includere nei suoi racconti delle mille ed una notte. Ci si riscontra anche un elemento picaresco che tradisce l'influenza spagnola nel nostro meridione. La figura stessa del Bailardo ne emerge composita, attraverso quel processo sincretico quando culture diverse si mescolano. Prototipo del racconto è sicuramente quel famoso mago salernitano Pietro Barliano il quale prima di morire nel 1149 fece in tempo ad ottenere l'assoluzione per le sue attività negromantiche. A questa figura venne a sovrapporsi, durante la preponderanza angioina a Napoli ed in Sicilia, l'ombra del famoso filosofo francese Pierre Abélard Abelardo, Barliano, Bailardo vengono facilmente a confondersi nelle dizioni dialettali, il quale Pierre poi, non scevro di una certa spregiudicatezza, aveva acquisito tra la gente anche una certa aura di magia. A parte queste speculazioni storico-filologiche, il fatto chiave nel racconto del Bailardo è quello che la magia, e perciò il mago, hanno una funzione importante nella demopsicologia popolare quale forza liberatrice dalla condizione politica e sociale della stragrande maggioranza delle popolazioni meridionali, e quindi sottolinea un fattore molto importante e poco considerato nella storia di queste nostre terre e la realtà italiana.
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Infine, la palla passa a Giovanni Ricci:
Ucronia Berserk
Queste mie ucronie costituiscono un omaggio all'omonimo fumetto di Kentaro Miura.
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Timeline conosciuta:
Grifis, il Falco Bianco, dopo aver perduto lo scontro con il suo vice e amico Gatsu, è costretto a lasciarlo andare. In seguito a questo episodio, viene sorpreso nel letto della principessa e rinchiuso in carcere per un anno, in questo carcere, Grifis verrà torturato barbaramente, resterà privo di lingua, e gli verranno recisi i tendini. Verrà liberato quando Gatsu, saputa la notizia si decide a tornare con gli ex-compagni. Il suo contributo sarà decisivo. Dopo che la ricomposta Armata dei Falchi ha liberato Grifis, sono costretti a vedersela con l'Armata dei Cani Neri, guidati dal feroce Wiald, un essere demoniaco, che dopo aver perduto tutti i suoi compagni, si trasforma in una creatura mostruosa obbligando Gatsu a combatterlo e tentando di stuprare Caŝka. Una volta abbattuto, il mostro si riprende e rapito il copro indifeso di Grifis reduce da un anno di torture lo esorta a chiamare i 4 della Mano di Dio, venendo però abbattuto da Zodd, altro demone intervenuto per difendere Grifis, futuro Quinto demone della mano di Dio: Phemt. Grifis non può chiamare i demoni, poiché in quel momento non ha più il Bejelit, l'amuleto che gli ha permesso di accumulare vittorie su vittorie quando era Comandante della Squadriglia dei Falchi, ma lo ritroverà poco dopo, e diverrà Phemt grazie al “sacrificio” a cui condannerà i suoi compagni dell'Armata dei Falchi. Solo Gatsu e Caŝka sopravviveranno, il primo rimettendoci un occhio e mezzo braccio, la seconda dopo essere stata posseduta da Phemt e averci rimesso la ragione.
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Ma cosa sarebbe successo se:
1) Gatsu avesse perso il duello con Grifis come tre anni prima?
2) Grifis non fosse stato sorpreso nel letto della principessa?
3) Se fosse stato sorpreso, ma fosse stato in grado di difendersi?
4) Gatsu non fosse tornato?
5) L'armata dei Cani Neri pur senza rifiutarsi platealmente di seguire il capo Wiald, lo avesse seguito a distanza e fosse giunta in ritardo, e se Grifis, sballottato a destra e manca da Wiald trovasse il Bejelit con qualche ora di anticipo?
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Ipotesi:
1) e 2) Grifis ascende al Regno di Midland come sovrano, Gatsu diventa capo delle guardie del sovrano, sposa Caŝka, con la quale si ritira in campagna, ma il Bejelit torna a rivendicare la sete di potere, Grifis, attaccato in un complotto dai nobili invidiosi che un plebeo sia diventato re, sul punto di morte è costretto a chiamare i 4 della Mano di Dio, per poi trasformarsi in Phmet sacrificando la capitale delle Midland. Gatsu e Caŝka, torneranno in azione per vendicare Judo, Pipin, Rickert, Kolcas e gli altri ex-compagni uccisi nel sacrificio, il resto della storia, sarà incentrata su Gatsu e Caŝka impegnati a dare la caccia all'ex-amico.
3) Grifis, dopo aver battuto, da solo tutte le guardie del sovrano, armato della sola spada, convola a nozze con la principessa, dato che il re non può fare altro che assecondarlo. Il regno delle Midland, diviene il regno di Grifis, dato che il re è ormai un burattino nelle mani di Grifis. Per fermarlo, il re tenterà la di giocare la carta dei Cani Neri, ma Wiald, sapendo che Grifis è destinato a divenire il Quinto della mano di Dio non attaccherà. Il re morirà lasciando a Grifis il suo trono. Grifis nominerà Wiald comandante delle guardie, ma presto nasceranno diatribe tra Falchi e Cani Neri, determinante sarà Gatsu, tornato dopo un po' di tempo nei ranghi, il quale sconfiggerà Wiald, e successivamente anche Grifis, che disperato, invocherà la Mano di Dio sacrificando i Falchi. Gatsu e Caŝka sopravviveranno in modo del tutto identico a quello della Timeline. Grifis nel frattempo, rinascerà in forma umana ma di natura ibrida tra uomo e demone tramite il bambino “figlio suo” che la principessa porta in grembo.
4) Gatsu non torna più presso l'armata dei Falchi, poiché impara tardi cosa è successo a Grifis. L'Armata dei Falchi, libera Grifis rimettendoci più di metà armata, e soccombono tutti quanti nel Sacrificio che permetterà a Grifis di divenire Phemt.
5) Grifis evoca la Mano di Dio, ma sacrifica i Cani Neri, permettendo ai Falchi la sopravvivenza. I Falchi però, capita la natura di Grifis, e soprattutto ora che è diventato Phemt, non intendono seguirlo. Il nuovo comandante dei Falchi sarà il bravo Judo, suoi vice saranno Pipin e Kolcas, insieme continueranno ad essere una squadriglia di mercenari, non più invincibili come ai tempi in cui Grifis era il loro comandante, ma sempre temibili, finché non decideranno di sciolgiersi una volta accumulate le ricchezze necessarie per vivere nel benessere. Gatsu e Caŝka, si ritireranno in una zona tranquilla e costruiranno una famiglia.
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